San Giovanni a Teduccio dimenticata. Un documentario d’epoca e un’indagine su un palazzo perduto
Un commovente documentario presente su YouTube ha dato lo spunto per fare alcune riflessioni in merito alle immagini mostrate e su alcuni luoghi ormai persi che appaiono in esso. Abbiamo preparato una comparazione fotografica dei luoghi di ieri e di oggi e svolto una indagine su uno stemma nobiliare di un palazzo perduto.
Il Lagno
Così si intitola il documentario girato nel 1966 per la regia di Luigi Di Gianni che in 11 minuti ci mostra uno spaccato della vita che si svolgeva a San Giovanni a Teduccio nell’area gravitante intorno al Lagno.
Nel 1824 nell’ambito delle opere di bonifica di questo territorio fu realizzato l’alveo comune dei torrenti di Pollena al fine di convogliare a mare le acque piovane raccolte sul Monte Somma. Questo originariamente sfociava solo nella zona dei Granili poi durante il ventennio fascista fu aggiunta una deviazione all’altezza del cimitero di Ponticelli con una nuova foce più a sud.
Il Lagno protagonista del documentario è proprio l’ultimo tratto di questo nuovo ramo realizzato nei pressi del Municipio con foce in corrispondenza di via Eduardo Pepe.
Dallo scorrere dei fotogrammi emerge un triste e avvilente ritratto di città, per la miseria che traspare e le condizioni di vita in cui vivevano alcune persone fino a pochi decenni fa. Allo stesso tempo è un documentario molto commovente perché nonostante tutto, nonostante i problemi, nonostante sembri che tutto vada male, un po’ alla volta l’umanità migliora e a piccoli passi migliorano anche le nostre città.
Nelle immagini tra uno stanco canale di acqua putrida dove giocano bambini e si intrattengono i disoccupati appaiono diversi scorci di San Giovanni a Teduccio, alcuni riconoscibili: il Corso, la chiesa di San Giovanni Battista, l’ex casa del fascio. Altri ormai persi.
Il documentario ci mostra enormi cortili dove si viveva forse più all’aperto che nei cupi bassi, bambini in grembiulino ordinatamente in fila per entrare a scuola, anch’essa fatiscente.
Una latrina probabilmente ad uso comune ci ricorda che molte abitazioni erano sprovviste di servizi igienici. L’interno di una misera abitazione, o meglio una unica stanza, dove viveva ammassata tra tante cose una intera famiglia di nove componenti. Ma non mancano i piccoli momenti di gioia per i bambini all’arrivo di un ambulante e la sua giostrina.
Oggi il lagno non è più visibile poiché fu tombato dagli anni 80 del secolo scorso per sopperire ai bisogni di infrastrutture e spazi per l’aumento della popolazione e delle necessità dei trasposti. Su di esso sono nate via Argine a Ponticelli e viale due Giugno proprio a San Giovanni a Teduccio.
Il palazzo diroccato
Oltre le toccanti scene di vita quotidiana dell’epoca risaltano alcune scene in cui appare un edificio allo stato di rudere sul cui portale d’acceso faceva bella mostra di sé un grande stemma marmoreo, testimonianza di una certa importanza dell’edificio che è purtroppo ormai sparito dalla memoria collettiva e del quale sembra non esserci traccia documentale.
Potrebbe essere interessante provare a capire dove fosse localizzato e a chi potesse essere appartenuto. In una delle riprese fatte all’interno della corte dell’edificio si riconosce chiaramente il retro della chiesa di San Giovanni Battista, inquadrato all’interno dell’arco del portale. Dunque in base a questa ripresa sembrerebbe che l’edificio potesse essere collocato approssimativamente dove oggi c’è il parco pubblico intitolato a Massimo Troisi.
In effetti conferma di ciò la si trova in alcune mappe antiche nelle quali è possibile identificare quasi con certezza l’edificio in questione. L’immagine più chiara è data dalla Mappa topografica della citta di Napoli e de’ suoi contorni del 1750-75 e meglio conosciuta come del Duca di Noja.
Alle spalle della chiesa appare un palazzo con corte e giardino e di lato un orto recintato e probabilmente anche una piccola cappella. Il tutto circondato da campagne coltivate, come in effetti erano queste zone.
Doveva quindi trattarsi di una villa di campagna con, probabilmente, anche funzioni di vera e propria masseria, magari anche ricca di opere d’arte come altre masserie residenziali che erano presenti nelle nostre campagne.
Lo stesso impianto si rileva nella mappa dell’agro napoletano di Antonio Rizzi Zannoni risalente al 1793 anche se le proporzioni degli edifici in questa sono più approssimative. Inoltre nella parte recintata sembrano ora apparire delle piccole costruzioni.
Indagine su uno stemma nobiliare
Ma quale poteva essere la famiglia che edificò tale costruzione? Proviamo a capirlo dallo studio dello stemma che fortunatamente è abbastanza chiaro. È di tipo inquartato, ossia diviso in quatto parti, due delle quali con un leone rampante le altre due con fascia orizzontale e bande inclinate. È ormato da una corona sostenuta da un putto dalla quale sembrano spuntare le basi di cinque fioroni che identificano le corone principesche. Al di sotto è completato da una decorazione antropomorfa a mascherone.
Si tratta di uno stemma composto ottenuto unendo quelli di due famiglie. O più precisamente come in questo caso due rami della stessa famiglia. Infatti entrambi i simboli sono attribuibili alla famiglia Caracciolo. Il leone è riferibile al ramo Pisquizi, mentre al ramo Rossi fa riferimento la fascia con bande. In particolare sembrerebbe essere uno stemma adottato da molti rami dei questa amplissima famiglia, ad esempio dai Caracciolo di Oppido o quelli di Forino.
Lo stesso stemma, anche se con quarti invertiti, l’ho rilevato in altri edifici di Napoli: sul portale di palazzo Caracciolo D’Arena in via Tribunali e dipinto sulla volta dell’androne del palazzo di Nicolò Caracciolo in vico Sedil Capuano.
Una ulteriore conferma dell’attribuzione del palazzo ai Caracciolo ci può arrivare dalla mappa, Vesuvio e suoi dintorni, probabilmente del 1808, nella quale il Rizzi Zannoni risulta più dettagliato e riporta anche il nome dell’edificio: Palazzo Pinto. Sono però scomparsi il giardino e l’orto.
Questa denominazione è una ulteriore conferma dell’ipotesi di attribuzione dell’edificio ai Caracciolo poiché alcuni membri della Famiglia Pinto si imparentarono con i Caracciolo dai quali ereditarono proprietà e titoli nobiliari. Francesco Emanuele Pinto principe di Ischitella, che dal casato dei Caracciolo ereditò i titoli di principe di Migliano, marchese di Trevico e di Sant’Agata, fu anche Ministro della guerra del regno delle Due Sicilie dal 1848 al 1855. Chissà che il palazzo in questione non sia appartenuto proprio a lui.
Dalle mappe alle fotografie aeree
È curioso rilevare come già dalle mappe antiche emergano dei toponimi utilizzati ancora oggi e che spesso crediamo di origine più recente: Scassone, I due palazzi, Pazzigno, Sperone, Cappella, Sannicandro, Casale.
Il Casale è proprio il toponimo col quale è indicata la zona attraversata dal Lagno. Situata tra Barra, il Corso San Giovanni, l’attuale rione Villa e via San Nicandro. Nei pressi del palazzo sulle mappe è riportata anche la piccola chiesa di Santa Maria delle Grazie tuttora esistente in via Bernardo Quaranta.
La zona appare anche in alcune fotografie aeree di ricognizione bellica scattate dagli alleati nel luglio del 1943 nelle quali è chiaramente rilevabile il palazzo Caracciolo-Pinto, il percorso del lagno con la sua amplia curva, che oggi è occupato dal viale Due Giugno.
Qui oggi vi sono gli edifici della ricostruzione post terremoto con i murales di Maradona e l’edificio a ponte che scavalca proprio l’alveo sotterraneo del lagno. Si riconoscono inoltre anche l’ex Casa del Fascio, oggi caserma della guardia di Finanza, e lo scheletro della scuola “Sarria-Monti” in via Bernardino Martirano allora ancora in Costruzione.
Vittima di un bombardamento?
Osservando gli scatti aerei del 1943 il palazzo sembrerebbe essere ancora in buone condizioni e con le coperture tutte intatte.
Appena 23 anni dopo però nel documentario appare totalmente distrutto.
Difficile immaginare un naturale decadimento da abbandono in soli due decenni, pertanto si può ipotizzare che il palazzo sia stato distrutto dai bombardamenti alleati dell’agosto settembre 1943, forse poiché situato vicinissimo a un probabile obiettivo militare che su alcune fotografie appare cerchiato in rosso, forse batterie antiaereo o forse impianti civili scambiati per postazioni di guerra.
E’ giusto specificare che questa breve indagine necessiterebbe di approfondimenti mirati per dare risposte certe ai tanti interrogativi, sperando che possa in qualche modo essere una base da cui partire per una futura ricerca documentaria vi lasciamo alla visione del documentario.
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