Palazzo De’ Cappellani, uno sconosciuto “Palazzo dei diamanti”
È sempre sorprendente scoprire quanti tesori del tutto ignorati conservi la nostra terra. Non solo a Napoli o nelle principali città più vicine, ma anche nel più piccolo paese troverai sempre, sempre, qualcosa che ti farà esclamare: e questo da dove spunta fuori?
È il caso di questo palazzo praticamente sconosciuto, un po’ in disparte dal centro cittadino, privo di indicazioni stradali o pannelli informativi al quale puoi arrivare solo già conoscendolo o trovandotelo per caso davanti agli occhi appena svoltato l’angolo. L’aspetto è quasi dimesso e un po’ trascurato, come qualsiasi banale condominio, ciò che effettivamente è oggi. E invece sei in presenza di un piccolo gioiello architettonico con una lunga storia e radici culturali molto profonde.
In ogni caso appena lo scorgi il pensiero vola subito alla chiesa del Gesù Nuovo a Napoli, inconfondibile col suo bugnato a punta di diamante che ricopre l’intera facciata. E invece ci troviamo a Lauro di Nola (AV) al termine di via Bonavita in località Preturo e quella che vediamo non è una chiesa ma un palazzo rinascimentale costruito da Giovanni IV De’ Cappellani tra il 1513 e il 1529 allorché fu vescovo di Bovino, nomina che ebbe da Papa Giulio II del quale era cameriere segreto.
I palazzi dei diamanti napoletani
In effetti anche la chiesa del Gesù in origine era un palazzo nobiliare appartenuto alla potente famiglia dei Sanseverino principi di Salerno. Costruito nel 1470 è il primo “palazzo dei diamanti” documentato dal quale ne sono poi derivati molti altri sparsi per la penisola italiana dei quali il più famoso, ma non il più antico, è quello di Ferrara
Il palazzo fu confiscato ai Sanseverino una prima volta dopo la congiura dei baroni contro i regnanti aragonesi nel 1485, e nonostante lo avessero riottenuto, una seconda confisca sempre dovuta a contrasti con la Corte arrivò nel 1552, in epoca vicereale. Nel 1584 fu poi acquistato dalla Compagnia di Gesù che mantenendone la caratteristica facciata a punta di diamante lo sottopose ad una drastica ristrutturazione che durò fino al 1601, al fine di realizzare la chiesa che oggi conosciamo.
Considerando che quello dei Sanseverino oggi è una chiesa e che un secondo palazzo con bugnato a diamante nel centro storico di Napoli, il Palazzo Sicola, fu demolito durante il Risanamento, siamo di fronte all’unico “Palazzo dei diamanti” campano, “ovviamente meno noto di palazzo Sanseverino, può, tuttavia, essere considerato la riuscita espressione in un’area periferica delle istanze della cultura architettonica del rinascimento napoletano e della Roma bramantesca, frequentata del committente dell’edificio laurese”.
Un vero palazzo rinascimentale
Se l’originario palazzo Sanseverino aveva probabilmente un partitura della facciata più legata a schemi medievali questo di Lauro è invece organizzato all’interno di una più chiara composizione rinascimentale.
La facciata presenta un doppio registro con una parte basamentale a sua volta segnata da una modanatura a toro molto sporgente, al di sotto della quale ci sono bugne a cuscino, per riprendere poi al di sopra con bugne troncopiramidali.
Il piano nobile invece è invece caratterizzato dalle bugne perfettamente piramidali, ossia a punta di diamante. Tra i due ordini sporge una cornice marcapiano lavorata con fiori e ovoli.
Al centro della facciata si apre un bel portale che richiama la classicità ispirandosi agli antichi archi di trionfo.
Caratterizzato da un doppia parasta con capitelli composti di stile ionico-corinzio, architrave decorato e chiave d’arco sporgente decorata con motivi a lorica. Ai lati due stemmi illeggibili, forse mai completati o abrasi dai successivi proprietari del palazzo, tra i quali ci furono anche i Narni Mancinelli il cui stemma nobiliare è affrescato sulla volta dell’androne.
Completavano la facciata nove finestre riquadrate da una semplice modanatura. Queste oggi ci appaiono con le modifiche successive fatte per ricavarne quattro porte al piano terra e un balcone al piano nobile.
Sugli architravi del registro superiore si legge l’epigrafe IO. EPS. BOVIN, ossia Giovanni Vescovo di Bovino.
Il mistero dell’architetto
Le iscrizioni delle finestre non solo consentono risalire con certezza al committente ma probabilmente sono anche una firma dell’autore del progetto. Infatti l’attribuzione a Gabriele D’Agnolo per l’affinità con Palazzo Gravina di Napoli, espressa nel decreto di tutela della Soprintendenza appare priva di fondamenti bibliografici e documentali. Anche delle altre ipotesi fatte per risalire al progettista originario, probabilmente un epigono di Giuliano da Maiano, che pure operò a Napoli, o qualcuno a cui erano noti i palazzi fiorentini o il bolognese palazzo Stanuti Bevilacqua, o forse addirittura lo stesso incerto autore della cappella Pontano a Napoli, nessuna sembra essere convincente.
Ma allora chi ne è l’autore? L’analogia più diretta proposta da R. Serraglio per questo palazzo è con un disegno di Giuliano da Sangallo per la ricostruzione della porta di Fano. Escludendo per mancanza di riscontri un coinvolgimento diretto dell’architetto è plausibile che il De’ Cappellani ne conoscesse l’opera grazie alla sua frequentazione dell’ambiente culturale romano e che quindi possa esser stato egli stesso, basandosi su tal disegno, a dirigere le maestranze nell’esecuzione dell’edificio.
Curiosamente poi i caratteri delle iscrizioni sulle finestre e i simboli tra le lettere sono molto simili proprio a quelli utilizzati dal Sangallo sul suo disegno.
Dunque il palazzo De’ Cappellani, detto anche “dei tufi” proprio per la caratteristica facciata, si inserisce perfettamente nel solco dei palazzi rinascimentali costruiti da un signore profondo conoscitore della cultura antica ma anche delle ricerche architettoniche contemporanee. Nonostante l’apparente ispirazione dal palazzo dei Sanseverino molto probabilmente questa non è così diretta come ci può apparire oggi, sia per la distanza temporale tra i due ma anche perché “tra i contemporanei non tutti erano convinti della sua “magnificenza”, di conseguenza non è scontato che fosse considerato un modello da imitare”.
A difesa della fede
Anche se il paramento murario a diamante è sempre stato associato ad una dimostrazione di forza e potenza del committente probabilmente la scelta del De’ Cappellani si inseriva invece nel solco più antico di un legame con la Terrasanta facendosi risalire a tale luogo i primi edifici di tale foggia probabilmente egli “..la riteneva rappresentativa della cristianità e non per sottolineare la propria forza militaresca o per imitare altri palazzi dei diamanti, in particolare quello napoletano del principe di Salerno.”
Anche il materiale utilizzato per il rivestimento della facciata è solo simile a quello del Gesù Nuovo che è realizzata in piperno. Qui invece fu utilizzato il più tenero tufo grigio, più economico e facile da lavorare ma anche più soggetto all’attacco del tempo, come si può vedere in molte bugne consunte, e anche a quello dell’uomo. Sono ancora visibili i “.. danni arrecati il 30 aprile del 1799 dalle truppe francesi del generale Jean Baptiste Olivier che incendiarono il castello e i principali edifici della città per punire il sostegno dato ai sanfedisti dal principe di Lauro Scipione Lancellotti”.
Questo palazzo così poco conosciuto e in una località ai margini dei principali percorsi culturali, è sicuramente una piccola perla del rinascimento napoletano cinquecentesco che meriterebbe di certo maggiore attenzione e senza dubbio un restauro. Nell’attesa intanto potrà essere una meta facilmente raggiungibile da inserire in una prossima passeggiata nel nolano e nel Vallo di Lauro, magari insieme al convento di Sant’Angelo in palco.
Qui si può visionare l’album col reportage fotografico completo del palazzo
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testi consultati:
Riccardo Serraglio, Palazzi dei diamanti campani, in Architettura del classicismo tra quattrocento e cinquecento, a cura di A. Gambardella e D. Jacazzi, Gangemi editore, Roma 2007.
Riccardo Serraglio, Analogie tra la facciata del palazzo dei Tufi a Lauro e la ricostruzione grafica della Porta di Fano di Giuliano da Sangallo, in ArcHistoR anno VI (2019) n. 12.
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