Villa Figliola, lo straordinario tesoro della sua sconosciuta cappella a San Sebastiano al Vesuvio
Villa Figliola è uno dei pochi edifici antichi di san Sebastiano al Vesuvio a conservare sostanzialmente intatto il suo aspetto storico, tra questi è di certo il più grande. Da masseria agricola a residenza nobiliare è ancora oggi poco conosciuta nel novero delle ville vesuviane ma presenta interessanti caratteristiche architettoniche e soprattutto una splendida cappella gentilizia chiusa da decenni e praticamente sconosciuta. Seguiteci in questa visita virtuale tra storia e immagini, vi accompagneremo alla scoperta di un vero gioiello vesuviano.
Il casino del Figliola
La villa Sorge al margine del comune di San Sebastiano al Vesuvio ai confini con San Giorgio a Cremano e Cercola. Tale posizione che in origine era in aperta campagna l’ha tenuta al riparo dalle intemperanze del Vesuvio rispetto agli edifici ubicati nel centro cittadino.
Il “Casino del Figliola”, così era denominato, è l’unico edificio dell’attuale territorio del Comune vesuviano (escludendo la masseria Rota oggi ricadente in Cercola) ad apparire sulla “Mappa topografica di Napoli e dei suoi contorni” meglio conosciuta come “del Duca di Noja” redatta tra il 1750 e il 1775.
È importante evidenziare queste due date poiché l’aspetto planimetrico che la villa ha nella mappa è sostanzialmente identico all’attuale a meno del corpo avanzante della cappella che però risulta ampliata nel 1763, ciò vuol dire che le operazioni di rilievo dei topografi devono essere avvenute prima di tale data.
Da masseria a villa nobiliare
Il fronte principale di villa Figliola guarda verso il Vesuvio con orientamento sud-est e si apre su uno slargo dell’omonima via. È caratterizzata da un aspetto asimmetrico e compatto dal quale sporgono due volumi coperti a terrazza, a sinistra quello della cappella mentre quello a destra ospitava un ambiente di servizio e oggi un’abitazione. Ciò è chiaramente il risultato dell’adattamento di un edificio preesistente nato come masseria agricola, probabilmente nei primi decenni del XVII secolo, al quale in un secondo momento fu aggiunto il piano nobile. Tale adattamento può essere testimoniato dall’asimmetria della posizione del portale ma anche dal diverso ritmo delle paraste e delle aperture del piano nobile. Queste sono riquadrate da una cornice in stucco con timpano ad arco e mensolette aggettanti. I balconi sono realizzati con un lastrone di piperno e una semplice ringhiera in ferro battuto. Al di sotto del davanzale delle finestre vi è invece una decorazione a festone in stucco, mentre in corrispondenza di ogni apertura vi è una finestra ovale che illumina il sottotetto.
La facciata, lunga circa 50 metri e dipinta di un vivace giallo Napoli, fino agli anni 80 era tinteggiata di rosso esprimendo maggior coerenza con la finitura in stucco del basamento riproducente un apparecchio murario in mattoni di terracotta. Questa si conclude con una cornice aggettante che nasconde il tetto a doppia falda e dalla quale, disassato sul lato sinistro in corrispondenza della cappella gentilizia, svetta un grazioso campaniletto a vela con doppia campana, che però oggi è avvolto da una rete di sicurezza contro il distacco dell’intonaco.
Lo stemma araldico
Il portale ad arco ribassato è caratterizzato da bugne in stucco lisce. In corrispondenza dell’imposta dell’arco sono murate due piccole lastre di marmo con incisa l’iscrizione “Villa Figliola”. Un elaborato fastigio rococò incornicia l’arco e lo stemma nobiliare bipartito. Nel primo campo sono rappresentate le armi proprie dei Figliola ossia una colomba posata su tre monti che guarda verso una stella cometa alla sua destra, mentre il secondo campo presenta un riempimento a vaio in genere utilizzato dalla famiglia Loffredo (probabilmente a testimoniare un’unione coniugale), il tutto cinto dalla corona marchesale a ricordare che i Figliola erano marchesi (e successivamente duchi) di Civita Sant’Angelo; sulla chiave di volta invece risalta una croce a otto punte aggiunta nel 1791 quando il casato fu accolto nel Sovrano Militare Ordine di Malta.
La Famiglia Figliola, originaria di Trani, fu tra quelle più in vista della nobiltà napoletana e molti suoi esponenti raggiunsero cariche importanti nell’amministrazione del Regno di Napoli. In particolare Domenico Figliola fu presidente della Regia Camera della Sommaria, ossia il Tribunale che si occupava di cause finanziarie e fiscali. Fu proprio quest’ultimo che nel 1745 promosse una corposa ristrutturazione della masseria dotandola di un aspetto più signorile e più consono ad una residenza nobiliare, pur non dimenticando la funzione prettamente produttiva.
La villa non raggiunge il fasto e l’opulenza delle ville vesuviane settecentesche costruite lungo la costa ma piuttosto esprime una eleganza misurata un esempio più unico che raro di discrezione, che certo va sottolineato nel clima fortemente concorrenziale che caratterizzò la febbre edilizia di quegli anni tutta volta alla ricerca di un’affermazione di prestigio[1] .
Luigi o Carlo Vanvitelli?
Tradizionalmente tali opere vengono attribuite al Vanvitelli, ma quasi certamente il grande architetto non fu mai coinvolto in questi lavori, forse attribuibili a qualche suo sconosciuto allievo o epigono. Quindi lasciamo perdere ciò che è riportato sul cartello turistico ai lati del portale, che sarebbe ora di sostituire, e proseguiamo nella visita della villa.
Varcato il portale ci troviamo nell’androne pavimentato in basoli vesuviani e diviso in due campate; la prima è coperta da una volta a botte con unghie laterali, la seconda (forse un successivo ampliamento) ha una semplice volta a vela. Sulla destra una scala, protetta da un cancello in ferro lavorato, raggiunge il piano nobile dove vi è una abitazione privata, mentre sul lato sinistro un piccolo ma elegante portale in piperno dà accesso alla sacrestia della cappella.
Percorso tutto l’androne ci troviamo nel cortile a pianta quadrata sul quale si aprivano alcuni locali di servizio e le rimesse. Il centro è oggi occupato da una grossa aiuola circolare con un albero di Magnolia, sulla sinistra una bocca di pozzo serviva ad attingere l’acqua dalle cisterne sotterranee. Più avanti un vecchio cancello in ferro battuto sostenuto da due pilastri in muratura dà accesso a ciò che resta del giardino della villa.
Un patrimonio sfregiato
Le facciate interne appaiono più frastagliate e frutto dell’aggiunta disordinata di volumi nel tempo, questo però ad esclusione dell’ala destra che ha un aspetto più ordinato e coerente caratterizzato da aperture con timpano triangolare delle quali l’unico balcone ha in più una decorazione in stucco con conchiglia e festoni di fiori.
A questa parte del piano nobile si accede da una seconda scala, illuminata da coppie di finestre ovali orizzontali, che si apre in un androne con portone secondario che dava accesso alla villa direttamente dalla campagna circostante.
Questa parte della villa, dal piano nobile in su, fu acquisita molti anni fa al patrimonio del Comune già in precario stato strutturale e per sicurezza fu puntellata con una gabbia di tubi innocenti che la avvolge ancora oggi.
Attraversato il groviglio d’acciaio imbocchiamo la compatta scala che conduce a un primo ballatoio che dà accesso, attraverso due bei portali in stucco con timpano triangolare, a due terrazzini ortogonali tra di loro. In alcune fotografie degli anni 80 del secolo scorso si nota su di essi la presenza di un frondoso pergolato. Dal ballatoio si accedeva poi al secondo appartamento nobile del quale oggi esiste solo un vuoto volume, ma che pare fosse dotato di sontuosi affreschi, portali in legno dipinto e dorato e ricchi arredi.
La scala poi prosegue verso il sottotetto e si conclude con un piccolo torrino delimitato nell’angolo nord-est da un curioso motivo a balaustrine che ricorda dei comignoli o una colombaia.
Attualmente il Comune, che ringraziamo unitamente all’Ufficio Tecnico e al Direttore dei Lavori l’arch. Raffaele Gallo per opportunità della visita all’area di cantiere, sta conducendo lavori di consolidamento strutturale e realizzazione di una nuova copertura in legno in sostituzione del fatiscente tetto in cemento fatto alcuni decenni or sono nel corso di una ristrutturazione condotta senza alcun criterio né decenza che sfregiò letteralmente questa parte del piano nobile, distruggendo e disperdendo un patrimonio artistico di enorme valore.
Il cellaio della masseria
Prima di passare al vero gioiello artistico della villa diamo un’occhiata al gioiello produttivo, ossia il cellaio. Lì dove avveniva la lavorazione delle uve raccolte nei fertili terreni circostanti. Il cuore pulsante di quella che era la masseria produttiva. Contrariamente a ciò che si trova scritto su vari testi, al cellaio, che occupa quasi interamente l’interrato dell’ala sinistra della villa, non vi si accedeva direttamente dal cortile ma da un cortiletto secondario raggiungibile dall’esterno. Ciò forse per rendere meno promiscue le due anime dalla villa.
Come tutti i cellai è parzialmente interrato per mantenerne bassa la temperatura, quindi varcato il portone in legno e percorsi pochi gradini ci troviamo trasportati direttamente nel passato in un ambiente dal fascino incommensurabile. Lo spazio è ripartito in cinque campate asimmetriche da possenti pilastri a croce che sostengono delle volte a vela a base quadrata.
Le antiche attrezzature sono ancora tutte ben conservate, dal bellissimo torchio in legno di quercia a doppia vite senza fine, alle botti di castagno, al pigiatoio in pietra lavica.
La cappella, il gioiello di famiglia
Torniamo sui nostri passi e finalmente, grazie alla disponibilità della signora Rosalba Figliola, diretta discendete della nobile famiglia, alla quale va la nostra gratitudine, possiamo accedere alla splendida cappella intitolata a Santa Maria di Costantinopoli.
Nella masseria era già documentata una cappella fin dal 1635[2], forse si trattava di un oratorio privato e probabilmente fu il nucleo originale dal quale venne ricavata quella attuale che, come recita il bel cartiglio in marmo scolpito, “Antonio Figliola ampliò di venti palmi verso la campagna i confini della cappella gentilizia dedicata nel 1659 dagli antenati alla madonna bizantina (e) ne accrebbe il culto con l’altare di marmo e l’eleganza (provvedendola) di sacra suppellettile nell’anno 1763”[3]. L’ampliamento rese la cappella di uso pubblico e assunse anche un ruolo sociale per la piccola comunità agricola che dimorava nei pressi. L’Antonio Figliola citato fu un sacerdote degli Ordine degli Scolopi, fondato da San Giuseppe Calasanzio al quale lo stesso era molto devoto e nel 1776 fu anche nominato Cappellano d’Onore di re Ferdinando IV[4].
La lapide dedicatoria è incastonata in un elegante portale in stucco con un timpano arcuato spezzato nel quale è inserita una finestra ovale che richiama un tema ricorrente in molte altre finestre della villa. Ai lati del portale vi sono due paracarri cilindrici in piperno. Considerando che un palmo napoletano corrisponde a circa 26 cm l’ampliamento dichiarato fu di circa 5,2 metri. Esattamente la sporgenza del volume della cappella dalla facciata della villa.
Il portone è in legno a doppio battente ed attualmente è sbarrato, l’accesso alla cappella avviene dall’androne della villa.
Il piccolo portale visto in precedenza immette in un locale che fa da disimpegno tra il presbiterio e la sacrestia.
In quest’ultima troviamo un bel lavamani murale in marmo con doppia cannula, due teche a muro con sportelli nelle quali, come si legge nelle iscrizioni ad esse sovrastanti, venivano conservati i busti di San Giuseppe e San Giuseppe Calasanzio.
La devozione a quest’ultimo fu qui instituita proprio da don Antonio Figliola il 4 aprile 1759, quando José de Calasanz (il futuro Santo era di origine spagnola) era ancora “solo” Beato. Questi era morto nel 1748 e fu santificato nel 1767.
Una terza nicchia, ad arco con vetro, è oggi vuota ma forse vi era ospitata una statua della ”Madonna con Bambino in legno, di finissima fattura con abiti e monili settecenteschi”[5].
Vi è poi una piccola acquasantiera in marmo a conchiglia oltre ad alcune fotografie e altre suppellettili familiari. Il pavimento a scacchiera è in piastrelle di cotto al naturale misto a maioliche con motivo a rosone. Anche se non è stato possibile vederlo in questa occasione, alcuni autori riportano la presenza al centro del pavimento dello stemma nobiliare in maioliche smaltate [6]. In ultimo una scaletta conduce alla piccola cantoria dove è posizionato un piccolo organo, che vedremo meglio in seguito, e sotto di esso, una porticina oggi ostruita, conduce direttamente all’aula liturgica.
La meraviglia
Tornati al disimpegno e scostato un pesante drappo rosso sbuchiamo nel presbiterio e finalmente accediamo alla cappella intitolata a Santa Maria di Costantinopoli, il cui culto si diffuse dopo la disastrosa eruzione del 1631 alla quale scampò l’originario nucleo del fabbricato edificato da Iacopo Figliola solo pochi anni prima[7]. Il varco è basso e per attraversarlo costringe a chinare il capo quasi in segno di devozione, quando infine si rialza lo sguardo la sorpresa è enorme!
Dall’esterno non si immagina la reale dimensione dello spazio sacro né tantomeno l’apparato decorativo, i marmi e i dipinti presenti.
La luce filtra solo dalla finestra ovale della facciata e Il chiaroscuro delle ombre nette rende più drammatico il colpo d’occhio che si coglie dal presbiterio. Da qui varcando la balaustra marmorea un piccolo gradino immette nella navata coperta da una volta a botte con unghie laterali e cornici in stucco che rimarcano gli elementi architettonici.
Man mano gli occhi si abituano alla penombra e lo sguardo si muove velocemente intorno attratto da una miriade di elementi distribuiti nel piccolo spazio sacro.
Il pavimento è simile a quello visto in sacrestia ma sul presbiterio ci sono altri inserti in maiolica dipinta.
Lungo le pareti laterali troviamo due piccole cappelline per lato dotate di altare in marmo intervallate da due cantorie aggettanti di cui la destra è occupata dell’organo visto nella sacrestia.
Quest’ultimo è riconducibile al XVIII secolo ed è di tipo positivo con 15 canne in stagno incorniciate da una composizione in legno intagliato e indorato. La tastiera è composta da 45 tasti di bosso ed ebano[8], le portelle sono tinteggiate di rosso e decorate a motivi fitomorfi in oro.
Presso il portone d’ingresso, sbarrato dall’interno con grosse spranghe, due nicchie a muro chiuse da sportelli in legno hanno l’interno totalmente dipinto con motivi floreali, la mensola centrale sagomata suggerisce che forse ospitavano degli ostensori.
La signora Rosalba ci racconta tanti aneddoti legati alla cappella: ricorda che qui celebrò il proprio matrimonio e che l’ultima celebrazione è stata per un funerale di famiglia all’incirca 10 anni fa. Da allora la cappella è chiusa ed ha acquistato il fascino dei luoghi dismessi e impolverati che tanto ci piacciono.
Sui ripiani in marmo dei primi due altari laterali sono poggiate due sculture in legno dipinto ad imitazione del metallo. Si tratta dei busti dei due santi di cui in sacrestia abbiamo visto le nicchie per ospitarli, non avendo fonti a riguardo mi si perdoni eventuali errori interpretativi. San Giuseppe ha una folta capigliatura e barba lunga, sorregge il Bambino con la sinistra mentre la destra impugna il bastone fiorito.
Accanto in una campana di vetro vi è la scultura più piccola di un Cristo risorto. Di fronte invece, san Giuseppe Calasanzio ha una barba più rada e una capigliatura quasi assente. La mano sinistra è portata al petto dove vi è incastonato un piccolo reliquiario mentre la destra è poggiata sul volume con la regola dei padri scolopi e sorregge dei fiori (certamente aggiunti successivamente al posto della penna).
Un’opera di Francesco Solimena?
Certamente però il pezzo forte della cappella è il presbiterio, in uno spazio molto compresso vi è una forte concentrazione di opere d’arte, una balaustra scolpita e l’altare maggiore entrambi interamente in marmi policromi eseguiti con la tecnica del commesso.
Una cornice pure in marmi colorati riquadra la pala d’altare tradizionalmente attribuita a Francesco Solimena, che merita certamente qualche parola in più.
Ad un primo sguardo l’opera ricorda davvero quelle del grande pittore che tra l’altro aveva la propria villa di campagna nel casale di Barra, a poca distanza da qui. Il dipinto rappresenta la Madonna assisa su delle nubi con in grembo il Bambino, più in basso un angelo la indica ad un fanciullo, sulla destra un santo, che potrebbe essere proprio il fondatore degli Scolopi (e non San Filippo Neri [9]), e un secondo fanciullo che sembra intento allo studio richiamerebbe l’opera delle scuole Pie dell’Ordine degli Scolopi il cui fine era proprio l’istruzione della gioventù.
La parte bassa della tela sembra ridipinta e vi è presente un curioso viso che spunta sulla sinistra. Mi sentirei di escludere che si tratti dell’autoritratto dell’autore[10] e ipotizzo si tratti proprio di don Antonio Figliola che volle così farsi ritrarre accanto al santo di cui era devoto nell’opera da lui commissionata.
Anche se forse in parte manomesso, il dipinto appare comunque di buona fattura e meriterebbe un studio più approfondito per accertarne o smentirne la paternità, anche in considerazione che la composizione è simile ad altre opere del Solimena. Il De Dominici infatti cita un quadro analogo, opera certa di F. Solimena, presente nella collezione del marchese Buonaccorsi di Macerata, dove però c’è un unico fanciullo e il santo orante è S. Francesco di Paola[11], inoltre, un dipinto praticamente uguale, Solimena lo dipinse per il sacerdote veneziano Antonio Widmann. Un’altra composizione simile, opera del Maestro, è la Madonna con Bambino e San Mauro orante, conservata a Napoli al museo civico di Castelnuovo[12].
Il tema, che ha avuto anche molte imitazioni dirette, è quindi frequente in Solimena, il quale per rispondere alle richieste della committenza l’avrebbe realizzato con un diverso santo orante e l’aggiunta di un secondo fanciullo. Potrebbe però anche essere opera di un allievo diretto o, in ultima ipotesi, frutto di un rimaneggiamento successivo con l’aggiunta del secondo fanciullo, il ritratto del committente, e l’adattamento di san Francesco di Paola in altro santo.
In ultimo vi è da segnalare l’esistenza di un ulteriore dipinto riconducibile a questo, opera del pittore austriaco Felix Ivo Leicher dove, anche se in una composizione diversa, è proprio Giuseppe Calasanzio il santo orante ai piedi della Vergine con angelo custode e fanciulli intenti allo studio. Quest’ultima opera avvalorerebbe quindi l’ipotesi fatta sul tema del dipinto principale della cappella Figliola.
Altre tracce di grandi artisti
Ai lati del presbiterio altre due opere necessiterebbero di approfondimento. Si tratta di un San Francesco d’Assisi in estasi e un San Nicola di Bari, secondo alcuni opere di Luca Giordano che pure aveva dei possedimenti poco distanti. I dipinti sono siglati GL ma appare difficile l’attribuzione al grande artista seicentesco anche in considerazione che in tal caso le due opere sarebbero da considerare preesistenti alla ristrutturazione settecentesca della cappella.
Sulla volta del presbiterio, infine, un dipinto murale riquadrato da una cornice in stucco bilobata raffigura lo Spirito Santo sotto forma di colomba.
Altri tre dipinti ovali presenti nelle cappelle laterali appaiono di buona fattura e potrebbero essere della bottega del Solimena o di qualche epigono. Si tratta di un San Gennaro, un San Giuseppe e un terzo dipinto raffigurante una figura regale con corona ed ermellino che imbraccia un Crocifisso, forse San Ludovico di Tolosa.
Il mistero del dipinto trafugato
A proposito di dipinti, secondo un dattiloscritto redatto da un membro della famiglia Figliola qui era custodito anche un Gesù Bambino opera di Diego Velázquez trafugato nella notte del 9 febbraio 1971, solo poco tempo dopo che un funzionario della Soprintendenze ne ebbe valutata l’autenticità.[13] Se la notizia dovesse trovare riscontri documentali non ci resterebbe che prendere atto di una grave perdita per il patrimonio artistico di San Sebastiano al Vesuvio.
Vivere per sempre
Nella cappella riposano anche alcuni membri della famiglia Figliola tra cui Maria Maddalena Mudarra (di probabile origine spagnola) morta nel 1758 a quasi 71 anni, ricordata come “donna incomparabile” dal coniuge Casimiro Figliola che pose la memoria funebre.
Una seconda lapide è dedicata a un altro sacerdote Antonio, morto il 22 gennaio 1716 a quasi 74 anni, sulla cui lastra tombale il già citato Casimiro, stavolta in qualità di nipote, ricorda che “non era degno di morte colui che non temeva di morire né rifiutava di vivere; poiché visse sempre, per poter vivere per sempre”.
Concludiamo la visita a questo straordinario sconosciuto tesoro augurandoci che anche esso possa vivere per sempre, magari con un diverso destino scaturito da una nuova consapevolezza dei beni storico artistici presenti sul territorio.
________________________________________________________________
Riferimenti bibliografici:
[1] C. De Seta, L. Di Mauro, M. , Ville Vesuviane, Rusconi Immagini, Milano 1980, p.192
[2] R. Scarpato, M.T. Tommasiello, A.M. De Luca Picione, San Sebastiano al Vesuvio. Storia tradizioni immagini, Napoli 1980, p.108
[3] C. De Seta, L. Di Mauro, M. , op. cit. , p.192
[4] B. Cozzolino, San Sebastiano al Vesuvio: un itinerario storico artistico e un ricordo di Gaetano Filangieri, Napoli 2006, p.108
[5] R. Scarpato, M.T. Tommasiello, A.M. De Luca Picione, op. cit., p.108
[6] R. Scarpato, M.T. Tommasiello, A.M. De Luca Picione, id.
[7] B. Cozzolino, op. cit., p.107
[8] F. Nocerino, Organi antichi di San Sebastiano al Vesuvio, in Quaderni Vesuviani n. 8 gennaio 1987, pp. 39-40
[9] R. Scarpato, M.T. Tommasiello, A.M. De Luca Picione, op. cit., p.108
[10] R. Scarpato, M.T. Tommasiello, A.M. De Luca Picione, id.
[11] B. De Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, tomo quarto, Napoli, Tip. Trani,1846, p. 428
[12] S. Carotenuto, Francesco Solimena. Dall’attività giovanile agli anni della maturità (1674-1710), Roma, 2015 p.250
[13] B. Cozzolino, op. cit., p.111
Comments are closed, but trackbacks and pingbacks are open.