Quando la lingua batte dove la mente duole
Così come era accaduto anni fa col fantomatico petaloso, così è accaduto in questi giorni con le presunte forme transitive dei verbi uscire e sedere, ovvero si è entrati ancora una volta nell’occhio del ciclone e della saccenza dell’internauta medio e il tutto a scapito della reale comprensione della questione e senza uscirne per questo più saggi ed informati di prima.
Tutto è nato nel momento in cui, in un’articolata nota (in genere sono risposte ai quesiti posti dagli utenti del sito) dell’Accademia della Crusca (società prestigiosa che tutela la nostra lingua e ne analizza l’evoluzione), l’accademico Vittorio Coletti alla domanda di alcuni utenti sull’uso transitivo del verbo sedere così tra l’altro risponde in data 11 gennaio 2019: “È lecita allora la costruzione transitiva di sedere? Si può rispondere di sì, ormai è stata accolta nell’uso …” e continua: “… anche se non ha paralleli in costrutti consolidati con l’oggetto interno come li hanno salire o scendere (le scale, un pendio). Non vedo il motivo per proibirla e neppure, a dire il vero, per sconsigliarla.” Detto ciò, apriti cielo! La notizia si diffonde a macchia d’olio ed incomincia ad espandersi e, soprattutto a trasformarsi e, come spesso accade, tra il serio e il faceto, ma soprattutto insinuandosi, ancora una volta tra chi ha voluto vedere questo sdoganamento del sedere, dello scendere ,dell’uscire ed affini come l’ultimo riconoscimento nei confronti di un Meridione oppresso e svilito dalla supremazia culturale ed economica del Nord e in questo caso il riscatto è rappresentato proprio dalle sue lingue che spesso utilizzano la transitività di suddetti verbi. In verità la stessa nota del Coletti conclude quanto segue: “Diciamo insomma che sedere, come altri verbi di moto, ammette in usi regionali e popolari sempre più estesi anche l’oggetto diretto e che in questa costruzione ha una sua efficacia e sinteticità espressiva che può indurre a sorvolare sui suoi limiti grammaticali.” Conclusione che esplicita il suo pensiero in una costatazione più che in una liberalizzazione della forma transitiva ma ormai è risaputo che stampa ed internauti in cerca di gratificazione non aspettavano altro, selezionano solo ciò che vogliono e la frittata è fatta.
Prima di andare avanti nel discorso sarebbe opportuno chiarire come funziona una lingua viva e a che servono istituzioni come l’Accademia della Crusca. Una lingua viva, cambia ed evolve accettando modifiche endogene ed esogene che la rendono diversa da quella parlata dai nostri avi, diversa dalle altre ma ricca ed eterogeneamente vivace e soprattutto specchio della cultura di un popolo; ma ovviamente questa non andrebbe snaturata e trasformata completamente, vedi gli eccessivi barbarismi (in particolar modo gli anglicismi) o l’accettazione di taluni errori ortografici e sintattici che pure restano in uso e ne diventano parte. Se io utilizzo ad esempio la parola cattivo per dire crudele, la uso perché viene dalla perifrasi captivus diaboli, prigioniero del diavolo, di conseguenza malvagio perché prigioniero del demonio e quindi il captivus è divenuto cattivo con un senso diverso da prigioniero. Ma anche il verbo arrivare per esprimere il concetto di giungere nasce da un uso settoriale della lingua, ovvero dalla marineria, infatti viene dal latino ad ripare ovvero approdare e di qui arrivare in qualsiasi luogo.
Ovviamente non tutto può essere accettato ed oggi, in un contesto mondiale, in buona parte dominato dall’inglese e dalla cultura anglosassone, non è facile per l’Accademia della Crusca gestire quello che una volta doveva probabilmente fare col francese ma al netto dei mezzi di comunicazione di massa. Il web poi enfatizza non poco la diffusione dei neologismi ma anche di errori ed orrori che pure pervadono ormai la nostra cara lingua.
Ad ogni modo tornando all’argomento di cui sopra, la Crusca, in epoche non sospette, aveva già trattato l’argomento (5 febbraio 2016) e, sempre in una nota, chiariva più nettamente e a nome di Matilde Paoli quanto segue: “La posizione dei lessicografi contemporanei non lascia dubbi: per quanto di impiego tanto rilevante da essere registrato (pur con le differenze segnalate), nessuno di questi usi viene “promosso” al livello della lingua comune.” Bollando, con tanto di disamina attraverso i maggiori dizionari della lingua italiana, come regionalistico l’uso transitivo di scendere ed uscire, concludendo brillantemente in tal modo: “Dobbiamo quindi deludere i sostenitori dell’ammissione di uscire transitivo a livello di lingua; proponiamo però, al solo prezzo dell’uso di una preposizione, di cominciare a uscire con il cane: dopo tutto è un amico.”
Con la speranza di aver chiarito l’argomento grazie a fonti dirette come informazione comanda, consiglierei agli accademici della Crusca di soppesare bene le proprie esternazioni anche se ben corroborate da discorsi linguistici e filologici, poiché questo è accaduto là dove dalla dotta disquisizione sul possibile o meno uso transitivo di verbi che transitivi non sono o lo sono poco, è trapelata solo l’opinione di Coletti e non la disposizione dell’Accademia. E così, come accadde per l’arcinoto “petaloso”, la risposta alla domanda del bambino fu scambiata anche allora per una disposizione ed una inclusione dell’aggettivo nel dizionario dell’istituzione. Risulta evidente che certo giornalismo ci ricama e del resto perché smazzarsi più di tanto nel voler chiarire un concetto complesso quando in linea di massima è solo il titolo che si legge; ed ecco che l’ennesima leggenda metropolitana è stata creata e non ci sarà smentita che tenga poiché la valanga è ormai partita e s’arresterà solo quando il luogo comune non si sarà più che compattato.
Il consiglio che darei, da informatore più che da linguista, sarebbe quello di comportarsi come i cugini transalpini e come quelli spagnoli che, con le loro accademie si mostrano molto più inflessibili e politicamente più netti rispetto ai nostri academici della Crusca. Saranno troppo rigidi, forse! Ma di certo faranno meno confusione. La lingua la fanno i parlanti e questo i nostri accademici lo sanno bene ma i parlanti non possono andare a ruota libera ed è qui che deve intervenire l’istituzione, con la difesa delle regole per evitare che ognuno, nell’anarchia che ci contraddistingue, parli la sua di lingua e per evitare, come accade per l’Osservatorio Vesuviano, che ad ogni battere di pennino tutti gridino al cataclisma, senza per questo capirne di vulcanologia. Questo per dire che il facile accesso alle fonti non implica una loro corretta interpretazione, è necessaria quindi un’opportuna mediazione di chi sa, altrimenti c’è il rischio che tutto questo possa portare ad un risultato opposto a quello a cui si era pensato. Così come nella geologia, così anche nella linguistica, ognuno ha voluto leggere ciò che voleva nei due siti istituzionali dando fuoco alle polveri della bufala e della mezza verità, giusto per sentirsi al centro dell’attenzione, e questo non è accettabile.
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