1964, il disastro aereo del Monte Somma
La cronaca postuma del più grave disastro aereo accaduto sul nostro Vulcano. Il ricordo di quei fatti raccolti ed elaborati dall’autore attraverso la stampa dell’epoca e le interviste ai testimoni oculari raccolte nel corso di questi ultimi anni.
Prima, prima che la televisione s’imponesse a tutti noi come il verbo assoluto, e molto più avanti della presunta infallibilità di internet, c’era la memoria a dare valore al ricordo di un evento. C’era infatti la possibilità di prolungarlo ai posteri, che, magari sotto forma edulcorata, talvolta sostanzialmente modificata, trasmettevano al futuro una storia. Questa però manteneva, nonostante le modifiche, quel valore umano che lo rendeva universalmente accettabile a tutti e per questo prezioso e degno d’esser trasmesso.
Del fatto di cui vorrei parlarvi, molto più recente rispetto alla storia delle genti vesuviane, ha di importante l’umana pietà verso chi ci è simile e le altrettanto umane bassezze che costellano le nostre vicissitudini.
È un evento, accaduto nel 1964 che, se non fosse per la memoria di quegli uomini che ne furono testimoni, oggi se ne sarebbe persa quasi ogni traccia. Infatti la pur utile rete, nuova frontiera dell’informazione, ha trattenuto ben poca roba tra le sue maglie e solo il ricordo di chi era bambino o poco più che un uomo, all’epoca dei fatti di cui vi narrerò, potrà dare la dignità della memoria a coloro che persero il loro bene più prezioso.
Pasqua dalle nostre parti, alle pendici del Vesuvio, dove il tempo imita la variabilità dei umori locali, non è sempre sinonimo di primavera e quell’anno l’inverno s’abbarbicò con quel che gli rimaneva e con tutta la sua enfasi all’incipiente primavera. La notte del 28 marzo 1964 era Sabato Santo e su Napoli imperversava una tempesta in piena regola. Si sa che quando piove, da noi, sia in città che in campagna, non c’è da scherzare, i canali, i lagni che i lungimiranti Borbone ebbero a costruire lungo le pendici del Somma, possono divenire più che torrenti in piena ed essere perciò molto pericolosi. La città poi, col suo sottosuolo di groviera, ha ben che temere.
La quiete vesuviana di quella vigilia di Pasqua era scossa solo dal fragore del temporale, e solo i pochi anziani che s’apprestavano alla funzione di mezzanotte scrutavano il cielo sperando in una schiarita. Qualcun altro s’affrettava a tornare a casa per festeggiare la Pasqua in famiglia, altri invece, come pochi ragazzini sfaccendati e sereni per le vacanze scolastiche, s’attardavano sotto una grondaia gocciolante a chiacchierare con gli amici più grandi della piazza.
Questo era lo spaccato della quotidianità di paesi come Massa, Pollena Trocchia o San Sebastiano all’epoca del boom economico, quando sperare aveva ancora un suo fondamento. Ben poca cosa rispetto a chi invece lo viveva già a pieno regime, sfruttando l’onda lunga che dalle tenebre del dopoguerra ci conduceva verso un mondo nuovo e la speranza di esservi partecipe, almeno in una sua piccola parte, era la cosa più gratificante.
L’aeroporto di Capodichino, sabato 28 marzo, era anch’esso bersagliato dagli strali di Giove pluvio e come se ciò non bastasse, a dimostrazione del nuovo clima cosmopolita che vivevano la città e la nazione, il traffico aereo era notevole. I voli di linea cedevano il passo a quelli militari degli statunitensi che richiedevano un ordine di priorità per snellire il traffico dello scalo napoletano.
La montagna, ‘a Muntagna, come la chiamano noi, il Monte Somma come è normalmente denominato, per differenziarlo dal più recente Gran Cono del Vesuvio (anche se in realtà non è che la parte più antica del medesimo vulcano), quella sera era coperta da una spessa coltre di nubi, che ne avrebbero celato l’esistenza a tutti coloro che non ne avessero memorizzato l’arcigna sagoma nella memoria marchiata a fuoco dalla linea crestata dei Cognoli.
Quella sera quando Aniello s’accingeva a riposare dopo una serata tranquilla in compagnia d’amici, agevolato da qualche bicchierino, riposava, finché verso mezzanotte non fu svegliato dal suono delle sirene. Aniello si precipitò in piazza Amodio a Pollena e nel trambusto capì che era accaduto qualcosa di grave, molto grave, ma da dove proveniva quel bagliore? «Da chiana de resinare!» Qualcuno gridava. La stessa gravità che intesero tutti quelli che ebbero udito il sordo boato, come le donne fuori la chiesa dell’Assunta a Massa, stupite davanti il bagliore delle fiamme intervallato dalle nubi e gli scrosci d’acqua, così come a San Sebastiano, Raffaele, investito della sua carica istituzionale avvertì i carabinieri, così come Guido, comandante della stazione dei carabinieri di Cercola. Ben presto si capì che il fragore che aveva scosso la notte vesuviana era stato causato dallo schianto di un aereo, un bimotore Viscount dell’Alitalia col suo carico umano di quarantacinque persone.
Intervennero nelle prime ore del mattino “le autorità”, i carabinieri, i vigili del fuoco, ma nessuno sapeva come giungere là dove l’aereo o quel che ne rimaneva ardeva ancora nonostante la pioggia incessante. La zona in questione, identificata all’epoca dalla stampa col toponimo, mai riscontrato, della “Cresta del Cardo”, era situata a circa 670 metri, probabilmente in un castagneto di proprietà delle suore degli Angeli di Pollena Trocchia, presso una zona identificata poi presso le “sorgenti” delle Chianatelle, polle pressoché prosciugate dalla natura e dall’umana incuria, sul versante Anastasiano del Somma. Un luogo impervio e la notte di tempesta non ne agevolava certo l’accesso. Fu necessario allora la guida di persone esperte per raggiungere il luogo del disastro.
Aniello, esperto cacciatore di beccacce, lo era, lo era quando ‘a Muntagna era parte integrale della vita sociale ed economica dei paesi del comprensorio e non un’appendice sconosciuta o il riflesso di una storia raccontata troppe volte per sentirla realmente propria. Quelli come lui la frequentavano con rispetto, si muovevano in un contesto che conoscevano perfettamente e non perché gli fosse stato inculcato sterilmente da qualcuno ma perché vi erano nati e l’amavano come qualcosa di proprio, di visceralmente sentito e di conseguenza amato, era il loro mondo insomma. Aniello, allora trentenne, si propose di accompagnare le avanguardie dei soccorsi sfruttando la sua conoscenza dei luoghi. Alla luce delle fotocellule s’incamminarono verso il punto dell’impatto, le fiamme guidarono poi il cammino verso il triste scenario che i soccorritori trovarono sulle pendici della caldera. Brandelli di carne umana apparivano tra le lamiere contorte e fumanti di quel che rimaneva del velivolo, corpi semicarbonizzati pendevano dalla folta vegetazione, un caos di bagliore e tenebra, di carne e metallo, di acqua e fuoco.
Non era certo lo scenario che i presenti s’aspettavano di vedere quel Sabato Santo, e che avrebbero ricordato sicuramente per tutta la vita. Luciano, quel mattino non avrebbe infatti immaginato di presenziare, oltre a quello strazio di membra umane, anche a qualcosa di meno truculento ma ben più raccapricciante della stessa morte, benché drammatica come quella che s’era prefigurata quella notte di Pasqua del “64. Era la morte della dignità umana che s’era abbassata ad infimi atti di sciacallaggio, stimolati dalle notizie del ritrovamento di denaro e preziosi tra le carcasse. C’è chi racconta che qualcuno avesse addirittura tagliato le dita ai cadaveri per privarli degli anelli; Luciano, allora Primo Appuntato, fu costretto a usare la sua pistola d’ordinanza per allontanare coloro che, neanche il rispetto per la morte, frenava nella loro bassezza. C’è chi li maledice ancora, più che per l’ignominia apportata alla comunità, per l’abisso al quale s’era portato l’animo umano.
Le prime luci di quel giorno di Pasqua non rasserenarono l’animo di Aniello e Luciano, e Michele e Luigi, così come quello di tutti coloro che speravano di trovare un superstite in quella che sembrava essere la più grande delle tragedie per l’empatia del momento. La boscaglia di castagni e lecci, sconvolta si apriva davanti ai loro occhi, i monconi carbonizzati delle robinie, le roverelle spezzate, come le vite di quegli uomini e quelle donne, non aprivano alcuno spiraglio alla comprensione di quella tragedia, incomprensibile come fu al momento del ritrovamento del cadavere di una bambina tra le ginestre ancora fumanti, intatta, nel suo vestitino, nel suo sonno letale, stigmatizzato da quel rivolo di sangue che le colorava il ceruleo viso di bambola, Luciano si commuove ancora al ricordo di quella visione, forse ancora più angosciante perché ancora non toccata e non consunta dalla morte.
I giornali del 31 marzo svelarono le dimensioni del disastro e incominciarono a porre le prime domande. L’aereo, proveniente da Torino Caselle, dopo uno scalo a Roma Ciampino, era diretto proprio a Napoli e portava il suo carico umano di speranze, sogni e aspettative. Molti dei passeggeri infatti si recavano nella città partenopea per trascorrere le vacanze pasquali, ma non tutti erano semplici turisti, c’erano Tom e Robert graduati della marina statunitense, ma anche Lawrence con sua moglie Fay e i loro figli Jill e Steven e molti altri che per lavoro o per seguire i propri cari trovarono la morte sul volo AZ-45. Pasquale era il comandante ed era uomo esperto e ben conosceva la rotta, tanto da lasciare quella sera la procedura strumentale d’atterraggio (Instrumental Landing System) e virare manualmente sulla baia di Napoli per dar tempo agli aerei dell’aviazione statunitense d’atterrare. Cosa sia accaduto non ci è dato sapere, probabile l’errore umano, ma come spiegarlo? Allora non esistevano le scatole nere che solo di lì a poco saranno istallate sugli aerei, il tutto rimane quindi avvolto nel folto mistero di quella notte.
Chiacchierando con un amico toscano, durante un’escursione sul Somma, appresi che sull’Amiata, antico cratere vulcanico, è interdetta la navigazione aerea proprio a causa delle forti variazioni magnetiche dovute alla natura del terreno. È plausibile allora un’ipotesi del genere anche per quest’incidente? Che sia impazzita la strumentazione di bordo del Viscount quella sera? Non sono un esperto e non voglio neanche paventare tesi alla Voyager ma voglio solo registrare un evento e una possibilità che spero, qualcuno più esperto di me possa acclarare. Aggiungo a queste notizie anche la testimonianza di Umberto che con gli ultimi bagliori del secondo conflitto mondiale, era al seguito degli alleati. Umberto notò strane interferenze elettromagnetiche sulle strumentazioni radio, questo man mano che saliva verso il cono, passato Colle Umberto ad una quota e un versante prossimi a quelli del disastro.
Delle 45 vittime del Viscount tre erano bambini, cinque i membri dell’equipaggio, sei di loro non furono mai identificati, tre non furono mai trovati, probabilmente annientati dalla forte esplosione e dando adito a storie di strane scomparse che mai potranno essere spiegate se non con la fantasia. I sei corpi e i nomi dei tre dispersi dimorano probabilmente ancora al cimitero di Poggioreale e sopravvivono ormai solo nel ricordo di Aniello, Luciano, di Stefano e di quei ragazzini che, increduli e incuriositi, affrontarono l’iniziazione del contatto con la morte, che li avrebbe portati nel mondo dei grandi, della dura realtà, ma, allo steso tempo, sarebbero stati i vettori del ricordo, il vincolo che unisce ogni uomo alla storia di tutta l’umanità.
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