Aurelio e Pasquale
Ieri a Ravello c’è stata la commemorazione della tragica scomparsa di Aurelio Spera e Pasquale Monaco, due giovani alpinisti vesuviani, scomparsi sul Cervino nel 1956. Le spoglie di Pasquale dovrebbero riposare ancora nella sua nativa San Giorgio a Cremano, mentre il corpo di Aurelio lo custodisce la Montagna ma il suo ricordo è ancora qui tra noi, così come quello di Pasquale e tutti coloro che osarono perché vissero.
Spesso gli alpinisti definiscono se stessi come conquistatori dell’inutile, forse perché già in loro stessi è presente la consapevolezza di quanto effimera possa essere la soddisfazione di arrivare in cima ad una montagna, soprattutto se paragonata allo sforzo e al rischio per raggiungerla per poi subito abbandonarla a causa della mutevolezza degli elementi. Ebbene, da buon camminatore, e da scarno alpinista quale sono stato, posso dire che quell’inutile che conquistiamo in vetta non è dissimile da quell’inutile che conquistiamo ogni giorno portando avanti i nostri principi, i nostri ideali e le nostre piccole, grandi imprese; inutile forse perché effimero ma sostanziale per la nostra esistenza.
Spesso quando si parla di montagna in un paese con quasi 8 mila chilometri di costa si dimenticano i 1.200 chilometri di Alpi e soprattutto i 1.400 chilometri di Appennino ma la naturale propensione di chi volge lo sguardo sull’orizzonte della vita da un punto e un contesto più alto e aspira a un qualcosa di più che l’ordinaria esistenza, non può che contemplare, oltre che le profondità del mare anche e soprattutto quella metafora di vita che sono le nostre vette montane.
Salire in montagna ti insegna a vivere perché ti mette crudamente al confronto con te stesso, ti mostra chi realmente sei senza menzogne e senza scusanti, è lì che capisci quanto vali, perché è in quel contesto che decidi se prendere di faccia la tua essenza o rinnegarla, nascondendola magari dietro la sorte o dietro colpe altrui; è lì in montagna dove decidi se essere un uomo o qualcos’altro, perché è in montagna che non si mente, perché non è possibile farlo. Ecco perché chi ci va sa; è consapevole di ciò che affronta e ne accetta le condizioni perché è cosciente che potrà essere contraccambiato con una doppia moneta, quella della gloria effimera della vetta e quella del rischio del fallimento, spesso con fatali conseguenze.
Oggi andare in montagna è diventato un qualcosa alla portata di tutti coloro che vogliano cimentarsi sulle nostre catene montuose ma, se da un lato è un bene perché avvicina più persone alla conoscenza di questo splendido e fondamentale contesto, dall’altro si è andato perdendo quel fascino che l’alpinismo aveva nei tempi passati, perché per molti, andare in montagna, è ormai uno sport, è un’attività prestazionale e non una disciplina dell’anima.
Aurelio e Pasquale erano probabilmente persone che vivevano in ragione di quel sentimento che ti eleva ad essere migliore nel corpo ma anche e soprattutto nell’anima, in ragione di ciò che ti avvicina a un qualcosa di più elevato che non sia legato a un che di materiale ma che dia significato alla tua esistenza. Aurelio e Pasquale erano giovani e come è giusto che fosse, la loro età li ha portati ad osare perché questo verbo è complementare con quello di vivere ed è sostanziale con la storia dell’umanità; loro hanno vissuto pienamente, tanto che a sessantaquattro anni dalla loro scomparsa siamo ancora qui a parlarne. Loro fallirono in modo letale nella loro impresa ma la morte non è mai inutile se ha un suo significato, un suo valore, la vera morte non è il fallimento di un impresa la vera morte è non vivere la vita.
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