Ricorre oggi il 78° anniversario di una delle più efferate stragi naziste che il 13 ottobre 1943 vide soccombere sotto i colpi delle armi tedesche ben 22 civili.
Il casolare della memoria
Siamo a Caiazzo, in provincia di Caserta, precisamente sul monte Carmignano nella frazione di San Giovanni e Paolo, davanti a un vecchio casolare diroccato. Non è l’unico da queste parti, come tutti è realizzato in tufo grigio casertano con qualche integrazione in blocchi di pietra; una fattura povera, una pura costruzione contadina: al piano terra le stalle e i locali per gli attrezzi al primo piano l’abitazione, fu anche ingrandito, allungandolo di un’altra stanza quando probabilmente la famiglia crebbe.
L’unico vezzo è una incisione stilizzata sulla chiave di volta dell’arco con la scritta G.G. – A. D. 1796, che ci comunica probabilmente le iniziali del proprietario e l’anno di edificazione.
Insomma un anonimo casolare diroccato, nemmeno uno dei più belli della zona. Eppure sono qui, venuto a cercarlo inerpicandomi sulla collina per viottoli sconnessi per vederlo, per vedere il luogo, per vedere l’unica memoria storica diretta, l’unica testimonianza rimasta di uno dei più cruenti episodi della seconda guerra mondiale contro civili innocenti. Contrariamente alle mie solite esplorazioni capisco che qui c’è solo una storia da raccontare che non è quella del casolare ma dei tragici avvenimenti che qui si svolsero 78 anni fa.
Nel mezzo della battaglia
L’8 settembre 1943 Badoglio annunciò l’armistizio e la resa incondizionata dell’Italia agli alleati. I tedeschi si trovarono così di colpo ad avere negli italiani un nuovo nemico. Il giorno dopo gli Alleati sbarcano a Salerno con l’operazione Avalanche; il primo ottobre giungono a Napoli ed iniziano subito a muoversi verso nord per incalzare i tedeschi che si erano arroccati oltre il fiume Volturno nell’intento di prendere tempo per approntare la difesa lungo la linea Gustav all’altezza di Cassino, al fine di tentare una ultima resistenza.
Il giorno 13 la situazione precipita ancora con la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Germania che di fatto legittimò gli italiani come cobelligeranti degli Alleati. Ciò indurì ancora di più gli animi dei tedeschi e allo stesso tempo mise in pericolo tutti i civili che si trovavano nei teatri di guerra a contatto coi vecchi alleati tedeschi. Fu in questo clima bellico che pochi giorni prima del 13 in una masseria sul monte Carmignano si erano stanziati alcuni militari tedeschi, con postazioni da fuoco, per controllare dall’alto la zona a ridosso del Volturno.
La sera del giorno 13 un ufficiale tedesco, Wolfang Lehnigk-Emden, allora ventenne, sottotenente della Wermacht –29° Panzer Grenadier Regiment credette di vedere dei segnali luminosi provenire da un casolare, o almeno così riferì al suo comandante, il tenete Raschke. Per il giovane ufficiale sicuramente doveva trattarsi di collaborazionisti degli alleati, bisognava intervenire: “Questa gente dovrebbe essere presa e fucilata!”. Il comandante non volle interessarsi della questione e si recò al comando del battaglione.
La strage di Caiazzo
Fu allora che Lehnigk-Emden assunse il comando e con altri due commilitoni Kurt Schuster e Hans Gnass si recò al casolare incriminato: la Masseria Albanese, dove vi trovarono diverse famiglie che vi si erano rifugiate per mettersi in salvo dalla battaglia in corso. Oltre ai proprietari, gli Albanese vi erano i Perrone i D’Agostino ei Massadore. In tutto 20-30 persone come riferì lo stesso Emden, il quale, mentendo, si presentò come inglese chiedendo informazioni sulle posizioni dei tedeschi. Alla risposta delle ignare vittime emise subito la sua sentenza: Colpevoli!
Prelevò così quattro uomini e li condusse con se alla sede del comando. Forse due donne e un ragazzo seguirono il gruppo per disperazione nell’intento di far desistere i tedeschi, o forse obbligati anch’essi. Fatto sta che arrivati al comando gli uomini furono subito fucilati da distanza ravvicinata e le donne finite con un colpo alla testa. Si decise di seppellire i cadaveri in una fossa accanto la sede del comando, e forse il ragazzo era ancora vivo quando fu sepolto.
Subito dopo Emden, non pago della sua vendetta, incalzò i commilitoni e li convinse ad andare a “finire il lavoro” alla masseria. Qui vi erano rimaste solo le donne e i bambini ad attendere ignari i propri cari, ma ciò non fece desistere Emden dal suo desiderio di sangue. Furono lanciate prima due granate nella casa, chi tentava di scappare fu mitragliato e infine i sopravvissuti furono finiti con colpi di pistola e baionetta. Probabilmente infierirono anche sui cadaveri e usarono violenza su una delle giovani.
Avevano trucidato a sangue freddo e senza alcun motivo 22 persone: quattro uomini, sette donne di cui una incinta e undici bambini. Civili inermi la cui unica colpa fu quella di trovarsi in quel luogo quella tragica sera.
Tornati al comando Emden comunicò che anche tutti gli altri erano stati “finiti” e diede ordine ad alcuni soldati di tornare alla masseria Albanese per trasportare tutti i cadaveri all’interno del casolare e nasconderli, cosa che fu fatta con paglia e coperte. Non c’era nemmeno tempo di seppellirli, gli alleati stavano riuscendo a guadare il Volturno, bisognava andare via. Infatti poche ore dopo la 34ª divisione di fanteria entrò a Caiazzo, e con essa i corrispondenti di guerra.
La tragica scoperta e le prime indagini
Il mattino del 14 alcuni contadini recatisi a vedere lo stato di salute dei congiunti rifugiati alla masseria Albanese scoprirono i cadaveri e la notizia della strage iniziò a girare. William H. Stoneman, giornalista del Chigaco Daily News si recò sul posto per vedere coi suoi occhi tanta crudeltà e raccontarla attraverso il suo giornale. Il cronista fu tanto colpito dall’accaduto che si occupò anche del recupero delle salme e della ricerca di testimonianze sull’accaduto.
Purtroppo nonostante la quasi immediata cronaca dell’eccidio, questo fu presto dimenticato. Gli alleati aprirono un’inchiesta e dopo pochi giorni riuscirono a catturare un gruppo di militari tedeschi tra cui anche Wolfang Lehnigk-Emden. Questi fu imprigionato prima ad Aversa dove confessò di aver comandato l’operazione punitiva sul Monte Carmignano e poi trasferito ad Algeri per comparire nel gennaio 1944 davanti a una commissione militare di inchiesta che si occupava della strage. Da qui riuscì a fuggire per ben due volte e raggiungere la Germania dove dismessi i panni militari, fino alla morte sopraggiunta il 20 giugno 2006, condusse una banale ed ordinaria vita da ingegnere imprenditore e, dimentico dell’orrore commesso, persino organizzando feste di carnevale.
La strage dimenticata
Intanto gli alleati appurando che nell’evento non si ebbero decessi di soldati americani dovettero trasferire la competenza alla giustizia civile italiana e quindi nel 1946 inviarono un dossier sulla strage al Governo Italiano che, nonostante le ulteriori sollecitazioni di Stonemann del 1949, decise di non dare seguito alla cosa «in considerazione della fase delicata che attraversano le trattative attualmente in corso con le Autorità Sovietiche per la nota questione relativa ai presunti criminali di guerra detenuti in Italia e richiesti dal Governo dell’Urss». il fascicolo fu occultato nel cosiddetto Armadio della vergogna e per circa 40 anni non se ne parlò più.
Si riaprono le indagini
Solo sul finire degli anni ‘80 uno storico dilettante, l’italo americano Joseph Agnone studiando le fasi della guerra del Volturno negli archivi americani scoprì le informazioni riguardanti la strage di monte Carmignano e le inviò alla Procura di Santa Maria Capua Vetere; fu aperta una inchiesta. Emden venne arrestato in Germania e fu interrogato nel carcere di Coblenza dal sostituto procuratore Paolo Albano il quale poi ricordò: “Mi trovai di fronte un uomo anziano, all’epoca aveva 70 anni, ma ancora forte ed energico – scrive il magistrato nel Diario di un pubblico ministero –, zoppicava leggermente poiché era rimasto claudicante per effetto di una ferita di guerra. Affrontò l’interrogatorio con atteggiamento glaciale, non vi fu un solo attimo in cui quest’uomo si sia commosso o abbia tradito un attimo di emozione: appariva impassibile. Mi colpì moltissimo la sua freddezza nel ricordare gli avvenimenti di quella sera di quasi 50 anni prima [ … ]. Non mostrava nessun dispiacere, nessun tipo di pentimento».
Il “boia” di Caiazzo salvato dalla prescrizione
Nel 1994 però il tribunale di Coblenza pure ritenendolo colpevole dovette far scarcerare Wolfang Lehnigk-Emden (poiché i reati di guerra sulla base di una sentenza del 1969 erano ritenuti prescritti in 30 anni), negando anche l’estradizione in Italia dell’autore della stage.
La condanna all’ergastolo in contumacia dell’ex sottotenente Wolfgang Lehnigk-Emden e l’ex sergente Kurt Schuster comminata nel 1995 dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere fu quindi solo un epilogo simbolico all’intera vicenda. Nel corso delle indagini fu ben definita e messa in luce la personalità perversa di Emden definito dai suoi stessi commilitoni “crudele e ambizioso”, e secondo il P.M. Albano probabilmente scatenò la sua furia omicida poiché “Censurato pochi giorni prima dai propri superiori perché fregiatosi di una croce di guerra che non gli spettava, il tenente pensò di riscattarsi agli occhi dei suoi vertici inventando il pretesto che le povere vittime avessero lanciato delle segnalazioni luminose al nemico”.
Sempre nel 1995 il “boia” di Caiazzo come intanto era stato soprannominato Lehnigk-Emden scrisse una lettera al sindaco di Caiazzo nella quale apparentemente mostrava pentimento per l’accaduto: pentimento e scuse furono respinte al mittente dal sindaco il quale contestò la non sincerità della lettera e il tentativo di far passare il massacro per uno spiacevole incidente di guerra. Nello stesso anno, l’Amministrazione Comunale di Caiazzo promosse un gemellaggio con la cittadina tedesca di Ochtendung, allora residenza dell’ex sottotenente Lehnigk-Emden, al fine di “.. promuovere e realizzare uno scambio di riflessioni e di esperienze, sui temi della pace, della giustizia, della tolleranza, della democrazia e dello sviluppo sostenibile”.
La memoria
Oggi di tutta questa tragica vicenda resta questo casolare semidistrutto, nelle cui pietre si individua ancora qualche foro di mitragliatrice, una croce commemorativa posta poco accanto e una lapide nel cimitero di Caiazzo a ricordare i nomi delle vittime:
Palumbo Raffaela (vedova Albanese) e i figli: Angelina di anni 12; Antonio di anni 14; Elena di anni 16; Maria di anni 18; Mariangela (moglie di Vito Massadoro ed in attesa di un figlio) di anni 20.
D’Agostino Francesco, la madre Orsola Santabarbara, la moglie Insero Angelina e i figli: Carmela di anni 5; Orsolina di anni 8; Antonio di anni 10; Saverio di anni 12.
Massadoro Raffaele, il fratello Vito e la madre D’Agostino Orsola.
Perrone Nicola, la moglie Di Sorbo Anna e i figli: Elena di anni 3; Maria di anni 7; Antonietta di anni 9; Giuseppe di anni 12.
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