L’eruzione vesuviana del 1855, la cascata di fuoco e i curiosi folleggianti
Quello dell’alba del primo maggio 1855 fu un brusco risveglio per i Vesuviani. Dopo cinque anni di quiete il Vesuvio tornò a ricordare di cosa erano fatte le sue viscere.
Il vesuvio come un melograno
Appena cinque mesi prima c’era stato uno sprofondamento di parte del cratere che non lasciava presagire nulla di buono, fu però alle 4 del mattino del primo maggio che iniziarono ad aprirsi nuove bocche sul fianco nord, verso l’atrio del cavallo che fu invaso in brevissimo tempo.
Alla fine si contarono circa undici nuove bocche “onde sembrava il Vesuvio come melogranato aperto” [1], le quali riversarono all’esterno in totale circa diciassette milioni di metri cubi di lava.
La magnifica cascata di fuoco
Questo fiume incandescente seguì il solito corso naturale verso nord-ovest e si diresse verso il fosso della Vetrana (dove oggi ammiriamo il fiume di lava dell’eruzione del 1944) creando una vera e propria cascata di fuoco che, come ci ricorda Luigi Palmieri, fu “sublime spettacolo ai vicini riguardanti per l’ampiezza del torrente e per l’abbagliante sua incandescenza nell’imbrunirsi dell’aria perla prossima notte.”
Successivamente da qui si diresse verso il fosso del Faraone dando vita ad una seconda cascata ignea per poi, come in ogni eruzione che interessava questa parte del vulcano, dirigersi verso San Sebastiano e Massa di Somma, distruggendo i campi coltivati, boschi e selve, e bruciando tutto ciò che incontrava sul proprio cammino. Un secondo ramo del fiume infuocato si diresse verso occidente minacciando san Giorgio a Cremano.
Nel suo percorso nei giorni successivi il flusso raggiunse e distrusse ciò che restava dei ruderi della cappella di santa Maria della Vetrana già diroccata dalle lave dell’eruzione del 1785.
Una spettacolare eruzione
Nonostante il notevole volume di lava emessa e gli ingenti danni causati, calcolati in 30.000 ducati quelli provocati all’agricoltura, e 5.000 ducati per le abitazioni, l’eruzione ebbe un carattere molto spettacolare e poiché sembrava non incutere timore, né spavento, attirò molti curiosi “ed i dotti a contemplare i fenomeni, ed investigarne le leggi.” E addirittura, “ la gente in folla con gaudio traeva a contemplare i maravigliosi fenomeni di una eruzione da molti desiderata; perchè creduta volgarmente rimedio acconcio a fare sparire, almeno nelle contrade vesuviane, la malattia della vite.“ [1] come ci racconta l’arciprete Giacomo Castrucci, il quale pochi mesi dopo i fatti diede alle stampe un resoconto dell’eruzione.
E aggiunge il Palmieri “Sarebbesi detto piuttosto al vedere tanta ilarità nei volti di coloro che si affollavano lungo la strada percorsa dall’acceso torrente che essi vi venissero a far festa, e sia per difetto di prudenza, sia per disprezzo di pericoli, taluni si arrischiavano a temerarie pruove e mal consigliati trastulli. [..]Nei primi giorni i più s’innoltravano sino all’origine della conflagrazione nell’atrio del cavallo; ma in seguito d’ordinario si contentavano contemplare la lava nelle basse pendici del monte, aggiungendo così ai danni da essa prodotti altri non lievi cagionati nelle terre coltivate dal calpestio e dal folleggiare del popolo.” [2]
L’attività scientifica e i soccorsi
L’Osservatorio Vesuviano fu ovviamente in pieno fermento di attività. Oltre all’allora direttore Luigi Palmieri , furono numerosissimi gli studiosi che si interessarono ai fenomeni e si recarono presso la sede del nuovo (fu inaugurato appena 10 anni prima) istituto scientifico, Molte furono le osservazioni scientifiche effettuate, e le scoperte fatte.
Durante l’eruzione quasi ogni giorno, e spesso più volte al giorno, fu presente sui luoghi disastrati il re Ferdinando II per osservare la situazione, portare conforto e sostegno economico ai danneggiati.
I paesi minacciati
Dopo aver invaso il fosso del faraone la lava si diresse verso san Sebastiano e Massa, minacciando il ponte che univa i due piccoli abitati, si pensò allora di demolirlo per evitare che, facendo questo da diga al fluire della lava, facilitasse l’invasione dei due abitati. Ben presto però la lava si arrestò e la demolizione non fu più compiuta. Purtroppo dopo breve il cammino della lava riprese e non essendoci più tempo per provvedere alla demolizione il ponte fu investito e distrutto, così come le abitazioni circostanti.
La lava quindi, immessasi ormai in un lagno, proseguiva il suo percorso verso Cercola, saturando l’alveo in cui scorreva e invadendo le campagne circostanti. La lava raggiunse il cimitero, un secondo ponte era poco distante e il governo, memore di quanto successo a san Sebastiano, fece provvedere immediatamente alla sua demolizione, che si rivelò però inutile in quanto di li a poco la lava cessò di avanzare.
Dopo 27 giorni l’eruzione si poteva dire conclusa.
[1] Breve cenno della eruzione vesuviana del maggio 1855 per l’arciprete Giacomo Castrucci, Napoli 1855.
[2]Memoria sullo incendio vesuviano del mese di maggio 1855 fatta per incarico della R. Accademia delle Scienze dai soci G. Guarini, L. Palmieri ed A. scacchi, Napoli 1855.
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