Europee 2019: l’ambiente che non c’è!
Non basta usare l’aggettivo inglese green per sentirsi al passo con i tempi ed avere la coscienza pulita e la salute salvaguardata. C’è bisogno di qualcosa di più in Italia per fare un ambientalismo coerente, è necessaria una reale inversione di tendenza e di una riconsiderazione della nostra coscienza ambientale.
Tra i tanti risultati, attesi o meno che fossero, scaturiti dalle elezioni del Parlamento europeo, spicca l’ottimo piazzamento dei partiti verdi in quasi tutta Europa e questo davanti alla disfatta totale di quello italiano che a causa di ciò non porterà neanche un rappresentante a Bruxelles attestandosi ad un misero 2,29%. In effetti l’imporsi dei verdi nel parlamento europeo come quarta forza politica, con 69 seggi pari al 9,2% dell’assemblea, non solo li renderà possibile ago della bilancia nel futuro confronto politico, non solo si sono sostituiti come alternativa di sinistra alle paventate destre populiste e sovraniste, ma si spera in loro per una reale e una maggiore incisività delle politiche ambientali nelle future scelte comunitarie.
Sembra inutile dirlo ma in Italia le politiche verdi non sono mai decollate del tutto, mai affrontate come si sarebbe dovuto fare di fronte ad un problema tanto importante per il Paese ma, nel migliore dei casi, il problema ambiente lo si è trattato in forma fittizia, transitoria o complementare a qualcos’altro. Neanche a dirlo, sotto i governi di destra, le logiche ambientali sono state bistrattate più che mai ma sicuramente anche le politiche di sinistra hanno schiacciato l’ambiente sotto le necessità occupazionali. Quasi come se il lavoro fosse prioritario su ogni cosa, ivi inclusi la dignità umana, i diritti civili e la salute stessa. In questo appiattimento generale, anche il partito dei Verdi, nel corso del tempo si è annullato sotto l’egida dei più forti cugini sinistrorsi, pur di restare a galla nell’agone politico, affrontando spesso scelte discutibili o ancor peggio non affrontandole proprio.
Per capire perché nel nostro paese le politiche ambientali siano così tanto avversate e disattese, andrebbe, a nostro modestissimo parere, affrontato il discorso ambientale a livello globale e non soltanto dal punto di vista meramente politico, anche se le due cose sono state spesso collegate e confuse tra loro o dove addirittura l’attivismo ambientale, nel bene come nel male, è stato l’unica politica verde in Italia.
Con questo vogliamo dire che, se al di sotto delle Alpi, parlare di ambiente, è ancora visto come un’attitudine da scioperati fricchettoni o da studentelli pronti a far filone ad ogni venerdì che Greta comanda; questo accade proprio perché lo stesso ambientalismo, quando non è stato funzionale alla politica, è stato più che altro funzionale a qualcuno, più che a qualcosa e questo è accaduto ed accade ancora nel momento in cui essere ambientalisti ricade non in una precisa e condivisa coscienza ambientale ma nel partecipare alle manifestazioni e soprattutto organizzare giornate ecologiche.
Fare una giornata ecologica non è di per sé un qualcosa di sbagliato, anzi in certi casi è uno dei massimi esempi di attivismo civico ma, farla sapendo di non concludere nulla, farla coscienti della loro simbolicità, allora sì che c’è qualcosa che non va, e si spera che lo sia solo dal punto di vista culturale e non finalizzate a qualcos’altro come la promozione personale di chi ha bisogno di un curriculum ambientale o di una associazione specifica in cerca di popolarità. Una giornata ecologica la si può inquadrare in un contesto emergenziale, là dove la cittadinanza si adopera per andare incontro alle istituzioni oppure per mettere in risalto le loro inadempienze e non come un qualcosa di puntualmente rituale da organizzare ad ogni autunno o ad ogni primavera portando orde di bambini da fotografare con i rituali cappellini gialli e senza che questo risolva nulla, neanche dal punto di vista pedagogico, poiché il rifiuto culturale e reale starà tutto là alla portata dei loro occhi e a sottolineare nelle loro giovani menti la futilità di certo ambientalismo, soprattutto se confrontato con quanto accade al di fuori di un contesto scolastico, nettamente difforme da ogni coerenza ed ogni logica educativa.
Allo stesso modo, se è vero che spesso le manifestazioni sono state veri e propri moti popolari contro l’ottusità e la tracotanza governativa, non si può pretendere di affrontare le tematiche ambientali solo con striscione e megafono e anche in questo caso, soltanto ed esclusivamente con le scolaresche in libera uscita e pretendere al contempo che questo cambi il mondo.
Così come non ci si deve sostituire allo stato, allo stesso modo non si può ridurre il problema ambientale ad un semplice selfie in mezzo ad una folla acritica di bambini festanti o a quattro simbolici sacchetti, non si può quindi pensare che le autorità competenti non conoscano il problema e che non sappiano da dove questo si sviluppi o che si possa risolvere in maniera festaiola e mediatica un qualcosa di tanto radicato nella cultura e nell’economia del nostro paese e con il semplice slogan del plastic-free. Sostenere infatti che un ente statale abbia abbandonato completamente l’uso della plastica (ma quale? E come?) potrebbe essere cosa buona e giusta ma lo è nel momento in cui non esistono problemi più gravi da affrontare e che conducono alla reale iattura dell’inquinamento ambientale, quella che procura i veri danni per l’ambiente e la salute.
Ci diranno che è meglio questo che niente! Che è solo l’inizio; ma combattere i cotton fioc e le cannucce, i bicchieri e i piatti usa e getta, sa di stantia, facile e faziosa politica, ma soprattutto far finta di ignorare un’intera economia sommersa che scarica, sversa e brucia amianto, bitumi, solventi, pneumatici e tutto il resto per strada, nelle campagne, in mare e nelle aree protette è, a dir poco, ipocrita. Non sono soltanto le mafie che gestiscono con i loro traffici lo smaltimento dei rifiuti, ma siamo noi stessi che con la nostra dabbenaggine o le nostre necessità economiche alimentiamo le discariche estemporanee che costellano le nostre campagne e i nostri parchi, siamo noi che anteponiamo i nostri personali bisogni all’interesse collettivo e senza per questo voler comprendere il danno che facciamo anche a noi stessi.
Ecco, davanti a tutto ciò, avendo sotto gli occhi questa ipocrisia, anche con il jolly dell’educazione ambientale come unica soluzione a questo scempio, si continua ad affrontare la problematica ambientale in Italia. Ovviamente con questi chiari di luna e con un sostrato culturale retrogrado che vorrebbe lo sviluppo al di sopra della tutela e non il suo esatto contrario, anche nelle aree protette, risulterà chiara l’attitudine nostrana a preferire alla tornata elettorale, oltre che il carro del vincitore, anche tematiche più coerenti alla propria realtà di suddito baronale che a quelle di cosciente cittadino.
Ma la questione è soprattutto culturale ed è legata ad una reale presa di coscienza e non ad una presa di posizione vincolata ai dettami politici della propria fazione. I dogmatici che vedono il male ovunque, tranne che a casa loro e coloro che minimizzano tutto tranne quando gli casca il mondo addosso, passando dai modaioli che si infatuano ora di Greta Thunberg ora di Ska Keller pur di non affrontare le criticità locali. Questo è il panorama che ha portato l’Italia agli ultimi posti in ambito di coscienza ambientale, ed è là dove gli ultimi arrivati della politica hanno prima cavalcato l’onda lunga dell’indignazione popolare delle varie Terre dei fuochi nazionali per poi assimilarla e convogliarla altrove dove è più convenuto dirottarla e questo perché, in questo paese, non si è capaci di andare oltre il senso di appartenenza e la faziosità politica.
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