I danni da Coniglio selvatico

Conigli selvatici (foto di M.Fraissinet)

Quando la storia naturale si confonde con quella umana il Parco sale in cattedra. Continua la “narrazione biologica” della fauna vesuviana a cura di Maurizio Fraissinet.

La giornata era bella, si incominciava a respirare aria di primavera e mi chiedevo se le attività del Parco mi avrebbero consentito qualche momento di libertà per andare a osservare gli animali in quei giorni. All’improvviso entrò nella mia stanza Oreste Sassi, il compianto Vicepresidente che da poco ci ha lasciato, per riferirmi che c’era l’aula consiliare del Comune di Trecase occupata da persone che protestavano contro il Parco per i danni che i Conigli selvatici stavano arrecando alle loro coltivazioni.

La cosa mi sembrò subito alquanto strana, se non sospetta, anche perché una delle richieste era quella di aprire la caccia al Coniglio selvatico nel Parco.

Il Coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus) è un lagomorfo della famiglia dei leporidi. Probabilmente fu portato in Italia dai Romani ed ora è presente nel nostro paese con un areale frammentato che interessa soprattutto le isole maggiori, tratti costieri sia tirrenici che adriatici e le regioni nord-occidentali.

La specie, al pari di altre che presentano una elevata natalità, va incontro ad oscillazioni periodiche delle popolazioni con momenti di massimo sovraffollamento che preludono ad un crollo drastico, dovuto alla riduzione delle risorse trofiche, al diffondersi delle epidemie e alla forte predazione. Ricordavo che all’inizio degli anni ’90 c’era stata una epidemia di mixomatosi che aveva decimato le popolazioni italiane e ipotizzai quindi che ci trovavamo di fronte ad una fase di picco demografico del ciclo popolazionistico della specie. Il problema quindi non era destinato a durare. Ciononostante la protesta montava e si erano fatti avanti periti agrari per curare le pratiche di risarcimento del danno all’Ente Parco. Non c’era giorno che non venivano a protocollare pacchi di richieste di risarcimento.

Ero reduce da un viaggio nel Parco dell’Etna, con cui avevamo fatto un gemellaggio, ed avevo appreso che il Parco siciliano rimborsava i danni operati dagli uccelli selvatici ai coltivi. La cosa mi lasciò interdetto. Da ornitologo mi chiedevo quanto potesse essere il danno effettivo, quali specie potessero essere individuate come responsabili e come si potesse quantificarlo. Mi sembrava più che altro una forma di contributo a pioggia, quasi di tipo assistenziale.

La cosa non mi convinceva e non volevo che si creasse una tale situazione sul Somma – Vesuvio. Ero anche insospettito dalla mole di richieste. C’erano così tante aziende agricole nell’area sud del Parco?

Con il Direttore e i consulenti tecnici ragionammo per trovare una soluzione, sapendo che il fenomeno era destinato a scemare per motivi biologici e volevamo evitare quindi che divenisse una pratica scorretta di assistenzialismo a danno di fondi pubblici. Il Parco doveva continuare ad essere un presidio di legalità in un territorio in cui questa parola veniva da troppo tempo messa da parte.

C’era chi ci metteva le conoscenze zoologiche (il sottoscritto), chi quelle giuridiche, chi quelle agronomiche, chi quelle progettuali. Dopo pochi giorni il regolamento era pronto. In primo luogo venivano rimborsate solo le aziende agricole regolarmente riconosciute. Non avremmo quindi rimborsato il danno ai peperoni dell’orto familiare di chi faceva un altro lavoro che non fosse quello dell’imprenditore agricolo. Le imprese agricole avrebbero fatto domanda di risarcimento all’Ente Parco con un apposito modulo, quantificandone anche l’importo. Un ufficiale dell’allora Corpo Forestale dello Stato che aveva un distaccamento presso il Parco avrebbe verificato con un sopralluogo il danno, e l’effettivo ammontare dello stesso.

Ma non bastava, il danno non si sarebbe dovuto ripetere negli anni, anche se, come detto, sapevo che la popolazione sarebbe bruscamente calata negli anni a venire, e in particolare ci premeva tutelare le aziende vitivinicole che risultavano quelle più seriamente danneggiate perché i conigli si alimentavano delle “barbatelle”, le talee piantate per avere nuove viti. Inserimmo quindi un’altra clausola. Avremmo rimborsato il danno alle aziende vitivinicole che avrebbero accettato contestualmente la dotazione gratuita da parte dell’Ente Parco di speciali difese anti coniglio che avevamo progettato per difendere le barbatelle.

E così fu. Pagammo chi aveva subito il danno effettivo e donammo tantissime difese anti coniglio. Nessuno protestò o si lamentò.

La popolazione di Coniglio selvatico l’anno successivo calò bruscamente, complici anche i predatori naturali del Parco: le Volpi, le Faine, ma soprattutto le Poiane, che quell’anno di straordinaria abbondanza allevarono più piccoli e furono presenti con una coppia in più. Non avemmo più richieste di danni e provai una grande soddisfazione quando andai a visitare una bella azienda vitivinicola che mi mostrò le barbatelle protette dalle difese anti coniglio e che era contento della loro efficacia.

Quell’anno ospitammo anche una studentessa di scienze naturali impegnata in una tesi di laurea sul Coniglio selvatico.

Quell’esperienza fu, a mio giudizio, un bel modo di “fare Parco” e ritengo che ci fece acquisire crediti presso i viticultori vesuviani.

Di Maurizio Fraissinet

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