Il dissesto idrogeologico degli altri
L’esperienza di un giornalista e di un attivista vesuviani nei luoghi del grande incendio pisano; di come si può far prima e meglio, per evitare che disastri simili accadano ancora.
Una regola fondamentale del giornalismo sarebbe quella di controllare le fonti di una notizia se non addirittura recarsi direttamente sul luogo della notizia stessa e redigerla personalmente dall’esperienza diretta o attraverso chi l’ha vissuta in prima persona. A volte risulta però fondamentale anche il confronto con altre realtà che contemplino le stesse problematiche trattate, per avere in tal modo un resoconto costruttivo e senza portare avanti tesi preconcette.
Dopo aver forse scritto tutto il possibile sull’argomento incendio e le sue conseguenze, e dopo aver chiesto a chi ne aveva competenza o quanto meno dopo aver provato a parlare con chi aveva autorità sulla prevenzione e la gestione emergenziale dei roghi boschivi del 2017, abbiamo deciso di confrontarci con un’altra realtà, quella che più recentemente ha subito un disastro simile a quello da noi patito ormai 16 mesi fa; per comprendere quindi cosa stessero facendo o cosa andrebbe fatto prima, durante e dopo il passaggio di uno dei più disastrosi incendi che i locali ricordino.
Ci siamo quindi recati a Calci, in provincia di Pisa, là dove gli scorsi 25 e 26 settembre sono andati in fumo 1.185 ettari di pino marittimo ed olivo, nonché una decina di abitazioni. Per fortuna non ci sono state vittime e questo nonostante il fatto che, così come nel parco nazionale del Vesuvio, ci si trovava in un contesto fortemente antropizzato, con la presenza di abitazioni, terreni agricoli ma anche di allevamenti, e si è riusciti ad evacuare i 750 abitanti della frazione di Montemagno in piena nottata.
Abbiamo dunque colto al volo l’invito, a partecipare al cosiddetto debriefing tecnico, organizzato lunedì scorso presso la casa comunale della cittadina pisana e dove si è analizzato l’evento che ha così duramente messo alla prova popolazione e soccorritori lo scorso settembre e dove abbiamo potuto verificare lo stato dell’arte delle operazioni di messa in sicurezza e bonifica del territorio delle Colline Pisane.
Il contesto dell’incontro, ci è subito parso inconsueto, pure per chi come noi è avvezzo a seguire le vicissitudini del territorio anche attraverso convegni e tavole rotonde; in effetti non abbiamo potuto evitare di notare la preponderante presenza della componente tecnica rispetto a quella politica, situazione opposta alla quale normalmente ci troviamo ad assistere. Abbiamo inoltre riscontrato che, nella regione Toscana, esiste una netta separazione tra componente AIB (Antincendio Boschivo) e quella della Protezione Civile e, l’azione dei Vigili del Fuoco è relegata alle situazioni cosiddette di interfaccia ovvero ad esclusivo presidio e soccorso dei siti sensibili quali le abitazioni e i loro occupanti.
La snellezza di questo sistema ha permesso di entrare rapidamente in azione poiché esisteva personale, volontario e professionale, valido e pronto all’intervento: 1 DO (Direttore delle Operazioni) coadiuvato da 4 DD.OO. (non quindi un solo DOS che opera solo nelle operazioni di spegnimento ma un responsabile che lavorerà anche dopo l’intervento attivo); squadre GAUF (Gruppo Analisi e Utilizzo Fuoco, capaci di usare mezzi antagonisti del fuoco come il “controfuoco” ovvero una linea di fuoco che sfrutta le correnti convettive dell’incendio e viene richiamata da quest’ultimo eliminando combustibile all’incendio stesso); squadre di taglio (per aprire percorsi per l’accessibilità dei boschi in fiamme); punti di coordinamento vicini e non uniti in un sol grande gruppo, dove ognuno ha potuto lavorare ai propri compiti senza sovrapposizioni e questo pur rimanendo in stretta contatto radio (un esempio è quello del mantener separata l’azione dell’incendio boschivo da quello di interfaccia). Insomma, tutti con ruoli chiari e con conoscenza dei luoghi tali da entrare in azione ed essere operativi, come del resto è accaduto, a soli 20 minuti dall’inizio dell’incendio, e non dopo una settimana come avvenne con le medesime condizioni climatiche (vento forte e siccità prolungata) nel luglio 2017 sul Vesuvio.
Inoltre, alla fondamentale presenza dei mezzi aerei (5 Canadair; 1 Chinook/Ch 47; 1 Erickson) gli operatori avevano a disposizione le mappe del territorio, ma non cartacee (mancanti a chi intervenne sul Vesuvio) ma cartografia operativa e digitale. Chi operava aveva inoltre a sua disposizione l’aggiornamento costante del perimetro dell’incendio e in tempo reale, con conseguente ricalibrazione della strategia e l’aggiornamento continuo delle condizioni meteo, fondamentali per capire il vento e l’evoluzione che questo avrebbe potuto dare all’incendio.
In verità le condizioni non erano delle più favorevoli per chi doveva intervenire ma un importante lavoro pregresso e la reale consapevolezza dei ruoli e dello stato del territorio ha permesso che il disastro non divenisse una catastrofe senza più rimedio. Infatti, la sera tra 25 e il 26 settembre, per quanto fuori dal periodo di allerta incendi (15 giugno-15 settembre), e un’umidità dell’aria pari al 100%, verso le 22.00 del giorno 25 viene avvistato un primo grande focolaio dalle cause ancora sconosciute (per condizioni ed orario è stato ritenuto dagli addetti ai lavori di probabile azione dolosa ma allo stato attuale pare non esistono arresti e capi di imputazione a tal riguardo) che divampa rapidamente a causa del forte vento di “grecale”. La difficile gestione del combustibile e il territorio impervio diffondono il fuoco, a monte e a valle del crinale (le fiamme tendono infatti a salire e se esiste una pendenza questa è più facilmente raggiungibile dal fuoco e quindi sale più rapidamente verso l’alto ma, in questo caso, ci si è trovati anche con un forte vento secco che spingeva le fiamme verso valle, allargando in maniera esponenziale il fronte di fuoco).
Alle ore 6.00 del 26 settembre la velocità del fuoco era 100ha l’ora ma dalle 6:00 alle 6:45 il fuoco avanzava di 450ha l’ora e con un’umidità dell’aria passata rapidamente dal 100% all’8% anche perché era riuscito a raggiungere una zona già toccata da altri incendi in passato, come quello del marzo 2009 quando 350ha furono divorati in meno di un‘ora (rischio questo al quale incorriamo anche noi vesuviani poiché esistono zone già percorse dagli incendi del 2016 e 2017 e dove il rischio incendio e conseguente desertificazione del territorio è assai alto). A tutto ciò va aggiunto un effetto spotting di eccezionale rilevanza, infatti le faville, che normalmente riescono a raggiungere anche gli 800 metri dall’evento, durante l’incendio del 26 settembre sono arrivate fino al capoluogo raggiungendo, a seconda dei punti, i 3km, 5km e 10km, innescando spesso piccoli e medi focolai ben distanti dall’incendio principale.
La cosa che più ci ha colpito è che a una settimana dopo l’incendio era già pronto il progetto dei tecnici regionali per il contenimento del dissesto idrogeologico e si conta di completare i lavori per il 31 dicembre 2018. Dopo due mesi dall’incendio, cosa constatata con i nostri occhi durante i sopralluoghi, i lavori sono già al 40% .
Sarebbe bene dunque, che chi di dovere, apprendesse queste buone pratiche e le esportasse anche qui da noi per evitare di continuare a commettere sempre i soliti errori. Le aree incendiate infatti sono state oggetto di interventi post-incendio con il taglio del bosco bruciato, la realizzazione di briglie e graticciate, la creazione di fossi di guardia ed altro ancora, queste aree sono per la maggior parte proprietà privata, ma la Regione sta operando anche in questi contesti, usando gli strumenti normativi a sua disposizione, interagendo con gli stessi proprietari. Quando si ha a quindi a che fare con il rischio idrogeologico, gli interventi sono obbligatori e non facoltativi come talvolta ci si vuol far credere. Per cui ci siamo trovati di fronte ad un esempio palese del fatto che il modo per risolvere i problemi c’è sempre, basta averne la volontà.
Tutto quello che dovreste sapere sul Grande Disastro Vesuviano del 2017
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