Il Sabato che verrà
Il Sabato dei fuochi che verrà sarà il più bello di sempre, sarà bello per le privazioni che avremo affrontato, sarà il più bello perché lo abbiamo atteso un anno intero e nonostante tutto lo attenderemo un anno ancora, rinunciandovi per un bene maggiore, quello della fratellanza della Montagna.
Quest’anno il Sabato dei fuochi non ci sarà, e solo chi lo vive da anni, per non dire da sempre, collettivamente e da generazioni, può capire cosa significhi non celebrarlo. Le ragioni sono ovvie ma, rinunciare a l’evento fondamentale dell’anno solare, non è sacrificio da poco; ma la maturità di un popolo la si vede anche in questi frangenti, dove prevale l’umanità e non l’egoismo puro di chi invece continua a salire sulle pendici del Somma per una sorta di onanismo mentale e sbeffeggiare chi invece decide di battersi, non solo per se stesso, ma anche per gli altri, entro le mura domestiche così come tra le corsie di un ospedale.
Il contrasto tra l’uomo animale, colui che agisce con azioni fini a se stesse, e l’uomo sociale, colui che è invece capace di vedere e credere in un qualcosa che abbia una sua importanza solo se condivisa, farà la differenza nel nostro futuro prossimo e la decisione delle Paranze va proprio in questo senso. Salire quindi sul Ciglio non significa solo far festa ma significa onorare l’uomo e la Montagna e quella Madonna che racchiude in se il tutto, la madre di tutto, genitrice pagana e cristiana, umana e divina, elemento femminile per eccellenza ma soprattutto perché si ama lei per amare tutti e tutto all’ombra del Ciglio.
Quest’anno, quando saremo liberi dalla quarantena e potremo dare alla libertà un significato diverso, volgeremo lo sguardo verso Punta Nasone e ricorderemo la devozione di quel luogo; la notte, la luce della cappella ci guiderà oltre la 268 e ci ricorderà che qualcuno ci aspetterà sempre lassù, tra le baracche o davanti alla cappella, sotto la croce o tra le rocce del Ciglio, ci sarà sempre un sguardo amico e un buon bicchier di vino e sarà la condivisione di un momento eterno, ciclico e perenne che continueremo ad attendere, a condividere e a tramandare.
Quest’anno non saliremo, non canteremo, non suoneremo e non balleremo, e mi mancherà quel vino che sa di Ciglio e di inebriante primavera. Quest’anno ci purificheremo e passeremo la nostra notte in bianco per meritare l’accesso al rituale della Montagna; una notte lunga e tenebrosa, piena di incertezze ma che ci riporterà alla dignità degli antichi, degli avi, dei nostri vecchi che impararono a meritare perché sapevano soffrire. E solo allora la tammorra potrà suonare intonando il suo ritmo incessante e ancestrale, vibrerà la sua membrana di capretto e sancirà ancora una volta il nostro passaggio terreno, scandito dalle stagioni del sole, della luna e dell’uomo.
Pe’ cient’anne!
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