L’arco del Chiavicone, il crollo annunciato e la solita retorica del piagnisteo
Il presunto “arco del molo borbonico” di via Partenope crollato ieri sera, non è scomparso ieri sera e non era quello “borbonico”.
Il manufatto che resisteva poggiato su uno spigolo di un concio dell’arco è “morto” quando è stato abbandonato a se stesso, quando ha smesso di espletare la sua funzione ed è stato lasciato all’opera del tempo che, il 2 gennaio 2021, ha messo la parola fine alla resistenza di quelle stanche membra che si reggevano per inerzia ma senza più vita da decenni.
Il crollo e le polemiche
Come molti ormai sapranno la sera del 2 gennaio scorso dopo l’ennesima tempesta di questo inverno è definitivamente crollato un arco in pietra esistente sul lungomare di via Partenope e, come è ormai consuetudine, si sono sprecate le lodi al manufatto perduto per sempre e aggettivato come “borbonico”, così come le maledizioni lanciate all’Unità d’Italia vista come unica responsabile di tutte le nostre disgrazie.
In realtà l’arco era malconcio da moltissimi anni poiché abbandonato a se stesso e alla furia degli elementi che poco a poco lo stavano minando alla base spostando i conci di pietra lavica sui quali poggiava l’arco. Sulla risibile ed inutile opera di puntellamento realizzata alla men peggio è meglio stendere un velo pietoso.
Come sovente accade di recente, poi, la maggior parte delle persone si accorge di certe cose solo nel momento in cui le perdiamo ma sono le prime ad associarsi al clamore dei social e all’ipocrita balletto delle recriminazioni per gridare allo scandalo, a inveire contro “chi doveva” e non ha fatto, a proporre improbabili restauri o ricostruzioni in nome di un malinteso senso di conservazione dei beni culturali.
E’ doveroso però provare a fare una precisazione e dire chiaramente che l’arco crollato non era quello borbonico senza con ciò, ovviamente, sminuirne la perdita e l’eventuale valore storico ad esso riconosciuto, così come la reale origine borbonica non ne avrebbe accresciuto il valore.
Questa precisazione servirà a poco visto che ormai, a furia di ripetere le solite solfe astoriche, l’etichetta di “borbonico” gli è stata appiccicata e mai sarà più tolta, visto che anche i quotidiani e i Tg così lanciano la notizia del crollo.
Ma era davvero un molo?
Il cosiddetto “molo borbonico” che i social stanno piangendo in queste ore era in realtà perso già da più di un secolo, inglobato nella colmata a mare per la realizzazione di via Partenope e non era un molo come usualmente lo si intende. Si trattava innanzitutto del canale conclusivo della cloaca massima, ossia della fogna della città, il cosiddetto Chiavicone che fino al secolo precedente aveva un semplice sbocco diretto sulla spiaggia di Chiaia, che per questo non era propriamente quel paradiso che spesso viene descritto.
Successivamente nel corso delle sistemazioni di via Chiatamone, avviate già in epoca borbonica, questo canale venne irreggimentato e coperto, e condotto oltre la spiaggia fino a sfociare direttamente in mare, dove fu realizzata una testata con un piccolo sbarcatoio a protezione dello scolo della fogna vera e propria.
Un progetto del 1844
Il progetto della realizzazione è ben documentato in un disegno attribuibile probabilmente a Bartolomeo Grasso nel quale è rappresentata la sistemazione di quel tratto di spiaggia con la nuova strada del Chiatamone, il filare di alberi che avrebbero delimitato il marciapiedi, al numero 7 la Cloaca e Sbarcatoio e col numero 8 è indicata la linea del muro per banchina secondo l’idea del Consiglio Edilizio per un futuro ampliamento dell’area tramite una la colmata a mare. Questo è anche il motivo per il quale lo sbarcatoio si trovava ad una quota molto superiore al mare che veniva raggiunto attraverso una scala terminale. Per l’esposizione al mare e ai venti questo non poteva essere un vero e proprio approdo e quindi un molo (come vuole la vulgata odierna), ed era utilizzato dalle barchette solo per scaricare velocemente le merci o il pescato, per poi riprendere nuovamente il largo.
Il Chiavicone nelle fotografie d’epoca
Come appariva lo sbarcatoio, questo sì borbonico, del Chiavicone lo possiamo vedere in numerose foto d’epoca nelle quali appare spesso con accanto la piccola costruzione ottagonale dell’ufficio doganale.
Ma in verità queste sono le ultime foto nelle quali possiamo vedere il vero sbarcatoio borbonico. Infatti Il manufatto crollato ieri fu realizzato sul finire nel XIX secolo nel corso delle sistemazioni definitive di via Partenope e via Caracciolo.
Che quello crollato ieri non sia l’antico manufatto d’epoca borbonica è facilmente verificabile tramite un confronto fotografico dal quale si evince chiaramente che la conformazione dell’originale sbarcatoio non è quella che è giunta a noi in quanto tutto il canale fu inglobato dalla colmata lungo via Chiatamone grazie alla quale furono ricavati suoli edificabili e realizzata via Partenope. Nel corso di queste opere fu rifatto anche lo sbocco fognario e la testata dello sbarcatoio ricavandone una piattaforma più ampia.
Tutto ciò avveniva intorno al 1870-90, asserire quindi che l’arco crollato sia borbonico è quanto meno un errore storico, senza voler scomodare la malafede di certe affermazioni tendenti a indorare un passato che in realtà non è mai stato come lo si racconta.
Tutto ciò non è per sminuire i problemi che ci attanagliano ossia l’assoluta assenza di una vera tutela dei beni storico architettonici che vada al di là di retorici annunci ai quali non segue mai alcun fatto concreto, se non “impupazzamenti” di facciata che servono solo a dare l’illusione che si stia facendo qualcosa, e cosa ancora più grave, è l’assoluta mancanza di programmazione e progettualità e quindi di visione futura per questa città che ormai dormicchiando lentamente muore sognando i fasti, veri o presunti, di un tempo che comunque è andato e dal quale bisognerebbe staccarsi per iniziare a fare dei passi in avanti. Proprio come hanno sempre fatto i nostri osannati predecessori che di certo in ogni epoca hanno operato nella maniera più moderna possibile senza il timore di fare e di un pesante fardello sulle spalle del “com’era bello una volta.”
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