Le vie della Catranesca
Le vie che da un vino unico portano ad una terra unica e viceversa. Una terra unica per la tipicità dei suoi prodotti ma soprattutto per il coraggio di quegli uomini che la coltivano mantenendosi sul precario equilibrio tra la modernità e il passato. Un viaggio che inizia dal palato ed arriva al cuore, passando prima per la mente di chi sa interpretare il territorio perché lo vive.
– Chiamare Catalanesca ‘a Catranesca equivale a chiamare frigitelli ‘e friarielli –
In genere non mi occupo di enologia, non ne ho le competenze tecniche, ed è un campo nel quale mi sono mosso sempre con molta circospezione, perché non amo le mode e ho sempre ritenuto l’enogastronomia come un qualcosa di serio e di inscindibile dal territorio e pertanto meritevole di profondo rispetto; se non altro verso il lavoro profuso da chi ci vive con la terra. Probabilmente fare il vino, e farlo così come lo si fa dalle nostre parti, è quell’attività che più di ogni altra lega alla terra, e non solo dal punto di vista scontatamente metaforico ma anche funzionale, proprio perché è dalla nostra singolarissima terra che l’uva prende quei sapori ancestrali che solo chi ha masticato l’avara terra vesuviana può capire.
Solo chi ha respirato l’aria estiva vesuviana sin da bambino può capire di che si tratta, solo chi ha avuto la bocca impastata dall’arsura e dalla polvere del lapillo durante le dure giornate di lavoro tra i filari può capire l’acre e universale sensazione di vita e sofferenza, binomio inscindibile di chi fa agricoltura alle falde del Somma e del Vesuvio. Chiamatela agricoltura eroica, chiamatela come volete, ma quando berrete un tutt’altro che scontato bicchiere di vino vesuviano, capirete di cosa sto parlando, lo capirete nel momento in cui, appagata la sete, vivrete il retrogusto sapido della leucite che da millenni è una degli artefici del miracolo dell’agricoltura vesuviana.
La sintesi di questi sapori è, a mio modestissimo parere, la Catranesca; sì, scusatemi, so che molti preferirebbero una dizione diversa, inquadrabile nel più normativo ed esotico “il catalanesca” ma io conosco bene le mie radici e non amo il marketing, soprattutto quello con la doppia ti, per cui userò sempre la forma femminile e arcaica di chi mi ha preceduto, anche perché la dolcezza melliflua di quella elle mal s’addice all’aspra vita dei nostri campi, strappati alla lava e privi d’acqua, contrasto reso ancor meglio da quella ti e quella erre che seguono la ci forte, forte come il risultato alcolico di un nettare unico e autentico.
Mi piacerebbe fare un viaggio nei vari modi di interpretare quest’asprezza e non so ci riuscirò, ma quanto meno lo inizierò e lo farò grazie alla familiare ospitalità di Giuseppe e Nicola Campanile delle cantine Monte Somma Vesuvio. Anche loro si sono gettati a capofitto in ciò che credevano, con spirito di sacrificio, verso un qualcosa che, se sacro non è, gli si avvicina di molto, soprattutto per noi laici e pagani passeggeri di questa terra. Io ci credo nel loro sacrificio e non perché mi fidi solo della loro parola ma perché mi fido della loro serenità, unica prova di chi sa di aver lavorato bene, con passione e abnegazione ma soprattutto con il rispetto verso una terra che, mai come oggi, merita principalmente questo.
Il video, per quanto amatoriale, parla da se e dà la cifra dei fatti e delle persone che fanno vino sotto al Vulcano.
Buona visione
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