L’insostenibile stupidità dell’essere

Di quanto sia assurdo e disperato guidare a Napoli

 

Sto notando una strana attitudine tra i miei conterranei, quella che sempre più spesso vedo manifestarsi agli incroci delle vie cittadine così come in quelle di campagna. Ebbene accade che, al momento della svolta, questi non seguano più il senso di marcia ma si piazzino proprio di fronte allo stop per tagliarlo, in quanto via più breve e fanno questo anche quando allo stop c’è chi si è opportunamente fermato. Ma non finisce qui! Infatti, oltre a bloccare il traffico che viene dalle altre direzioni, costoro rimangono invece straniti dal comportamento di chi gli sta di fronte, fermo allo stop, e che attende che questi lo liberino, e cosa fanno? Inveiscono pure e danno dell’incompetente a chi attende, cercando con lo sguardo e con la gestualità appoggio da chi impaziente vorrebbe invece passare e andare oltre.

Spesso ho riflettuto sugli atteggiamenti meridionali messi in atto quando ci si trova al volante e in particolar modo di quelli partenopei, a me più vicini; li ritengo una sorta di metafora della nostra società; ne ho trovato un riscontro simile solo in Grecia e del resto, pur essendo il mondo vasto ed eterogeneo, le origini son pur sempre quelle ma quell’opportunismo e quella cazzimma, talvolta inspiegabile in “tempi di pace”, credo che trovino le loro basi solo nella nostra cultura, là dove, chi si ferma allo stop, al semaforo o dà la precedenza a chi attraversa sulle strisce pedonali non è un vero uomo, un po’ come quando “ti fai spegnere la macchina sotto”: “chillo è ‘o manico ca nun è buono!” sarà uno dei complimenti più gentili ed eleganti, quando poi non si passerà addirittura alle metafore sessuali o alle allusioni alla fedeltà della propria coniuge per stigmatizzare l’altrui incapacità di condurre l’autoveicolo.

L’atteggiamento di prevaricazione è però talmente radicato e trasversale che si riscontra anche tra il cosiddetto gentil sesso che non si risparmia, non solo nell’infrangere volutamente le più basilari regole del codice della strada, ma addirittura imita con verve da camionista i propri padri e propri fratelli e talvolta li superano in testosteroniche invettive da far rabbrividire anche i più avvezzi alla già fantasmagorica volgarità napoletana. Talvolta, chiusi negli abitacoli, pur non riuscendo ad intendere l’invettiva, è solo lo storcersi deforme delle labbra pneumatiche a lasciare ad intendere la gravità del turpiloquio.

Una volta un attore napoletano disse che le auto erano delle “scatole di rancore”, là dove ci si chiude dentro con le proprie frustrazioni e si concentra il proprio rancore verso un mondo infame, verso qualcosa o qualcuno che si materializza poi negli altri conducenti, quelli che automaticamente diventano i capri espiatori del male che abbiamo subito o che pensiamo di aver subito, e quindi: dagli al nonnino che va troppo lentamente! “E dovrebbero togliergli la patente”, inveiamo, anche mentre contemporaneamente guidiamo con una sigaretta nella mano e con lo smartphone nell’altra, con il quale simultaneamente messaggiamo con qualcuno altrettanto distratto e arrabbiato. “Ma tu guarda a chistuccà ca s’è fermato ‘o stop quanno nun ce sta nisciuno!

Il semaforo poi è un luogo al di fuori del tempo e dello spazio, un luogo che esiste perché esistono le leggi ma che non rientra nella logica partenopea, dove tutto è caoticamente sincronizzato come in un incrocio di Rawalpindi, ma lui, il napoletano, è l’unico tra l’altro a percepire con frazioni di centesimo di secondo lo scattare del verde e sarà, inesorabile come la morte, alle tue spalle che ti busserà giusto prima dell’anelato colore e perché il tuo peccato, non sarà quello della mancanza di riflessi ma il fatto stesso che tu stai davanti a lui e sarai un ostacolo tra lui e il mondo, sia esso luogo di lavoro, sia esso tabaccaio, perché l’ira funesta dell’automobilista è direttamente proporzionale alla sua frustrazione, spesso innata e corroborata da un atavico complesso di inferiorità che ci fa spesso rivalere su colui che riteniamo essere anche il più debole: un’utilitaria, una macchina ritenuta brutta o non alla moda, un anziano, una donna; del resto, chi mai se la prenderebbe con uno di quei grossi SUV blasonati, o quelle sportive d’alto rango? Quelli sono come noi o, per lo meno, quelli che avremmo voluto essere noi, ed ecco perché le auto oggi appaiono sempre più ipertrofiche e prepotenti, il mercato, molto attento a queste cose, lo ha capito ormai da tempo perché, quei bestioni enormi, devono supportare il senso di frustrazione del conducente e questo anche se sono sempre più appariscenti, ingombranti e inquinanti.

Così, tagliare, praticamente contromano, quell’incrocio, non sarà la necessità di una fretta, tutto sommato inesistente, perché poi il tempo ce l’avranno sempre per fermarsi e “prendersi le questioni”. Lo si farà, forse, per dimostrare che il nostro io non può fermarsi a uno stop e deve affrontare l’incrocio come una chicane nella corsa della vita o della nostra recita falsata da un mito. E così sarà quando sentiremo una sgommata o l’insulso scorreggiare di una moto, quel sopruso alle nostre orecchie e al buon senso non sarà che l’urlo disperato di un frustrato che userà quel mezzo per manifestare la sua esistenza e gridare metaforicamente al mondo: io ci sono! Io esisto perché rompo il cazzo agli altri!

Quindi, se un giorno vi capiterà che qualcuno vi si attaccherà dietro con tanto di clacson e lampeggio di abbaglianti, per poi superarvi a mo’ di film poliziesco degli anni ‘70, e fermarsi subito dopo per comprare le sigarette, non arrabbiatevi e non cercate spiegazioni là dove di logiche non ce ne sono, ma abbiate pietà di loro perché sono ancora schiavi di un pregiudizio e di un luogo comune creato e perpetrato da loro stessi.

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