Lo stato del Parco Nazionale del Vesuvio
Per chi ha voglia di leggere, per chi ha voglia di capire cosa è accaduto realmente e cosa accade ancora nel Parco Nazionale del Vesuvio.
Premessa
La questione ambientale nel Parco Nazionale del Vesuvio è un qualcosa di emblematico e ci serve per capire come venga spesso fraintesa la tutela ambientale in Campania; sarà utile quindi valutare questo lungo, ma speriamo esaustivo, articolo, come utile compendio di quello che non andrebbe fatto in un’area protetta. È innanzitutto opportuno precisare, a scanso di equivoci, che quanto seguirà non è solo un’esplicita accusa verso l’attuale gestione dell’area protetta, ma anche verso tutte le parti in causa che intervengono e sono intervenute nella complessa gestione del Parco Nazionale del Vesuvio: i comuni, la Città Metropolitana di Napoli e la Regione Campania. È la descrizione di ciò che accade nel parco nazionale almeno da dieci anni a questa parte. Quanto scritto è inoltre frutto delle osservazioni dirette sul campo e dello studio di documenti comunemente reperibili anche in rete, nonché complementare alle segnalazioni e denunce fatte agli organi competenti dal sottoscritto e dalle associazioni con le quali si è interfacciato.
L’idea di sviluppo che prevale su quella della tutela
Il Parco Nazionale del Vesuvio (8.482 ettari) nasce ufficialmente nel 1995 con i migliori propositi ma con la consapevolezza della sua collocazione in una delle aree più densamente popolate e complesse d’Europa e con un “disordine” edilizio da record. Tale consapevolezza però non si è tramutata negli anni in quella spinta necessaria a far sì che il parco divenisse quell’oasi di verde e di biodiversità che Napoli e i 13 comuni del parco avrebbero pur sempre meritato. Una malintesa idea di promozione territoriale, tendenzialmente portata ad esaltare le grandi cifre del flusso turistico del Gran Cono, non è riuscita neanche a creare un indotto degno di questo nome, pur producendo un intenso traffico su gomma, incompatibile con la riserva integrale che attraversa (zona A) e paventando, su questa stessa linea programmatica, progettualità che vanno in senso diametralmente opposto alla tutela ambientale, quali ad esempio quella ultima di una funivia che, se attuata, metterebbe la parola fine al patrimonio paesaggistico e ambientalistico del Parco in virtù di uno sviluppo turistico nullo per il territorio e in favore di gruppi di interesse politico-economico quali la partecipata pubblica EAV. Il resto del territorio, in particolar modo quel che rimane della sentieristica vesuviana, permane in uno stato di completo abbandono e alla mercé di chiunque voglia fare della cosa pubblica una cosa privata.
Inoltre, l’esaltazione delle eccellenze locali, che altro non sono che eccezioni che strenuamente resistono in un deserto imprenditoriale e consortile, non è che un paravento per nascondere ciò che si sarebbe potuto fare e non s’è fatto in questo luogo tanto decantato quanto mistificato; là dove tali “eccellenze” non sono rappresentative del contesto socio-economico del territorio e limitate a poche specialità enogastronomiche e colturali; basti ad esempio pensare allo stato precario della coltivazione della rinomata albicocca vesuviana, oramai soppiantata quasi ovunque da altre colture spesso alloctone e in barba a un patrimonio di cultivar autoctone che va progressivamente scomparendo.
Il poi demandare sempre ad altri la risoluzione delle palesi problematiche dovute all’eccessiva antropizzazione del territorio ha allontanato sempre più il vesuviano dal Vesuvio e dal suo parco, visto come insieme di vincoli dai più e, all’occasione, un osso da spolpare da altri; si è minata in tal modo la reale essenza dell’area protetta, svilendo la fondamentale e complementare tutela in favore di una non meglio definita idea di sviluppo locale.
Le discariche storiche
Il Parco Nazionale del Vesuvio nasce nel 1995 con al suo interno ben cinque discariche: la Ammendola & Formisano di Ercolano; “la Porcilaia” di Torre del Greco; Cava SARI e Cava Ranieri di Terzigno e Cava La Marca di Somma Vesuviana, ovvero cinque luoghi all’interno del suo areale mai bonificati e mai messi in sicurezza. Le stesse ricadono nel contesto di protezione naturalistica delle aree Natura 2000 e soggette pertanto a normativa europea, ovvero due in area SIC (SARI e Ranieri), una in area ZPS (La Marca) e tre ZSC (Ammendola & Formisano; “Porcilaia” e SARI). Per decenni in questi luoghi è stato sversato di tutto, queste cinque discariche hanno accolto al loro interno, dagli anni sessanta fino alla costituzione del PNV, tonnellate di rifiuto “tal quale” e tutto quello che si è riusciti a far passare attraverso le maglie larghe dei controlli e di una tutela ambientale più da polvere sotto al tappeto che effettivamente compresa ed attuata e dove le ecomafie l’hanno fatta, per decenni, da padrone. Come se ciò non bastasse nel 2008 viene riaperta, a seguito dell’ennesima emergenza rifiuti e nella più trasversale delle azioni politiche, anche cava SARI a Terzigno assieme ad altri siti di “stoccaggio provvisorio” come quello dell’Ammendola e Formisano di Ercolano o presso la Porcilaia a Torre del Greco (ma nel comune di Trecase), ancora oggi presenti entro i confini del parco e mai bonificati. A tutto ciò si aggiungono gli interventi tardivi da parte di un certo ambientalismo clientelare e con un atteggiamento ambivalente dello stesso ente parco, che giustificò in un primo momento la riapertura della discarica SARI per la suddetta contingenza ambientale. Solo un moto popolare ha poi impedito che si aprisse nel 2010 una nuova discarica sempre in area protetta, quella di Cava Vitiello, quella che, per volumetria, sarebbe potuta diventare una delle più grandi d’Europa. Oggi la discarica SARI non accoglie più rifiuti ed è utilizzata dalla Ecodeco per lo sfruttamento dell’energia di biogas da rifiuto.
In relazione a queste cinque gravi criticità ambientali, nessun provvedimento è stato mai preso da parte dell’ente parco che ha sempre considerato, così come molte amministrazioni locali, quello delle discariche storiche, un problema superato, atteggiamento in contraddizione con i più importanti studi epidemiologici del Ministero della salute (S.E.N.T.I.E.R.I.) che hanno considerato parte di quei luoghi prima come Siti di Interesse Nazionale (SIN) e poi Siti di Interesse Regionale (SIR) e trovando nessi di correlazione tra alcune patologie neoplasiche e la presenza di suddette discariche.
Le micro-discariche nel P.N.V.
A questa già precaria situazione, là dove ci troviamo al cospetto di contesti che difficilmente potranno essere mai bonificati (si tenga presente che nel 2014, per l’ex SIN denominato “Litorale Vesuviano” che comprendeva quella fascia interna e costiera che andava da Castellammare di Stabia fino ad Ercolano, furono stanziati circa 5 milioni di euro solo per gli studi dei valori di fondo e per la caratterizzazione dei rifiuti), dobbiamo aggiungere un’ulteriore iattura per il PNV ovvero quella di una miriade di micro-discariche presenti all’interno dei suoi confini. Per micro-discariche non facciamo ovviamente riferimento alla sempre presente sporcizia lungo le strade, al sacchetto estemporaneo lanciato dall’auto in corsa o i residui di chi si “apparta” lunga la strada provinciale/comunale che porta al Gran Cono del Vesuvio, ma a siti più o meno estesi e costantemente interessati da scarico, sversamento e incendio di rifiuti di vario genere e pericolosità. Questi sono luoghi che costellano la riserva protetta, presenti in particolar modo in quell’area cuscinetto, interna al parco, che costituisce la fascia pedemontana dove il contesto rurale, e talvolta quello urbano, sfumano in quello più propriamente naturale. Zone critiche, sempre raggiungibili da strade carrabili, quelle che spesso diventano esse stesse ricettacolo di rifiuti, come del resto lo sono anche gli importanti assi viari interni al PNV; tra i quali la Strada Provinciale del Vesuvio, che a quota 800 diviene strada comunale, la cosiddetta Panoramica nel versante boschese e la Zabatta che congiunge Boscoreale ad Ottaviano. Questa realtà, incoerente con l’area protetta, e più volte negata o minimizzata dall’attuale presidenza del PNV, non è purtroppo solo il risultato di una subcultura che identifica il contesto pubblico come ricettacolo di tutto ciò che non si vuole nel proprio privato ma è la dimostrazione del fallimento di una politica dei rifiuti, locale e regionale, ma è soprattutto il prodotto di un’economia sommersa o semi-sommersa che non può o non vuole smaltire legalmente lo scarto delle proprie lavorazioni per calmierare i prezzi di produzione e ampiamente tollerata dalle autorità. Al contempo il problema dei rifiuti si ritiene accantonato per ragioni di competenza da parte dell’ente parco e, per ragioni di fondi, da parte delle amministrazioni locali che, a loro volta, demandano la soluzione del problema al volontariato dei privati cittadini e delle associazioni presenti sul territorio vesuviano o a inutili palliativi come la videosorveglianza. Regione e Città Metropolitana, anch’esse interessate al ciclo di smaltimento dei rifiuti, rimandano infine al mittente la patata bollente.
Sono quindi risultate inutili azioni come l’istallazione nel corso degli anni di sistemi di videosorveglianza, fototrappole e l’uso di droni o l’attuazione di operazioni che prevedevano l’uso dell’esercito come quella di “Strade sicure”; non solo è mancato l’effetto di deterrenza ma non si è in pratica mai riusciti ad arrestare il costante flusso di rifiuti dagli opifici verso campagne ed area protetta, portando a pieno titolo, e normativamente parlando, il Vesuviano nella cosiddetta “Terra dei fuochi”. Le tanto decantate (e costose) telecamere, anche le 35 di ultima generazione, istallate da ente parco e dai comuni, quando hanno funzionato, non sono servite nell’evitare lo smaltimento illecito di rifiuti e i conseguenziali roghi tossici, poiché non esiste ad oggi una reale volontà politica nel combattere questo fenomeno e non si può evidentemente ricoprire tutto il territorio di telecamere, in un contesto in cui, lo smaltimento diretto o indiretto degli scarti di lavorazione è funzionale alla sussistenza stessa dell’attività produttiva.
Il grande incendio del luglio 2017
Tale evento, spesso identificato con i roghi tossici delle piccole e grandi discariche presenti nel parco, non ha con questi avuto legami diretti se non quello di mettere in luce, presso le carrabili o altre zone antropizzate, vecchi sversamenti abusivi e dimenticati sotto la sterpaglia e la vegetazione spontanea. Gli incendi boschivi sono invece la conseguenza di una cattiva gestione del territorio, spesso abbandonato a se stesso. Va innanzitutto detto che gli incendi nei boschi sono un qualcosa di naturale e frequente ma, in un’area protetta e a maggior ragione se circondata da un anello urbano senza soluzione di continuità, come quella vesuviana, l’attenzione dovrebbe essere maggiore, ma spesso i lavori di Anti Incendio Boschivo si sono dimostrati insufficienti se non addirittura incompleti e controproducenti. Sta di fatto che il 5 luglio 2017, complice una siccità di mesi ed altre condizioni meteorologiche sfavorevoli, è scoppiato un incendio epocale che ha praticamente distrutto il patrimonio boschivo del Parco Nazionale del Vesuvio. Se infatti si considera che su una superficie boscata totale di 3.798,04 ettari ne sono stati percorsi dal fuoco 3.350,23, lasciandone integri soltanto 447,81 (dati fonte Univ. “Federico II”), abbiamo il quadro completo e definitivo di un vero e proprio disastro ambientale. Va comunque sottolineato che la superficie percorsa dal fuoco è suddivisibile in classi di severità e dove “solo” 429,14 ettari sono stati inclusi nella categoria a “severità alta” (si consideri però che 1.170,47 rientrano in quella “medio-alta”) che sommati alla categoria alta arriviamo quasi alla metà della distruzione del patrimonio boschivo vesuviano (1.599,61 ha), e questo senza aver ancora valutato una serie di problemi fitosanitari trascurati dall’ente e legati alla crescita di popolazioni di insetti, quali ad esempio il Tomicus destruens e la cocciniglia del Pino (Toumeyella parvicornis) che stanno ancora provocando la morte di migliaia di alberi lungo le fasce di confine dell’incendio stesso e in aree precedentemente sopravvissute al passaggio delle fiamme.
La natura vesuviana non ha raggiunto ancora quel punto di non ritorno che la desertificherebbe in maniera irrimediabile, nel caso che altri incendi percorressero tali contesti ma è evidente che, anche dopo gli incendi delle estati 2015 e 2016, la situazione del 2017, è stata il risultato di una politica ambientale del parco inesistente o fittizia che ha sottovalutato un problema più volte evidenziato dalla società civile. Le istituzioni preposte, in primis la presidenza del parco, non hanno saputo fare di meglio che gridare a un fantomatico attacco criminale e affidarsi alle leggende metropolitane o giocando sui concetti di colposo/doloso pur di non ammettere le proprie responsabilità che, in maniera trasversale sono adducibili a incuria, a ritardi di intervento e inadempienze delle amministrazioni comunali e della Regione, passando anche per quell’ente parco che si è limitato a produrre carte che notoriamente non spengono gli incendi, anzi fanno l’esatto contrario.
Ad oggi, tra protocolli d’intesa e convenzioni, si sta appunto tentando di arginare, anche in questo caso, più sulla carta che nei fatti, il rischio degli incendi boschivi, demandando a società in house come SMA Campania o agli operatori forestali della Città Metropolitana l’onere della manutenzione boschiva e delle operazioni di AIB e con prospettive facilmente immaginabili visti i trascorsi della società in questione e i risultati negativi dell’estate 2020 e, a maggior ragione, per i preoccupanti incendi di luglio e agosto 2021. A ciò aggiungiamo il gravissimo stato in cui versa la fauna locale, in particolar modo là dove il fuoco del 2017, non solo ne ha fatto strage, ma ne ha privato di dimora ed habitat, già di per sé precari. Ad oggi, fatta salva una ricerca sui chirotteri, già in essere prima dell’incendio e portata a termine in questi ultimi mesi, non esistono studi che possano aver monitorato lo stato precedente e successivo all’evento catastrofico del 2017. Si preferisce quindi ancora una volta spendere milioni di euro in modo emergenziale (al momento stanziati almeno una decina) anziché valutare strategie di prevenzione efficaci, anche in visione dell’aggravarsi della problematica degli incendi boschivi, strettamente correlata al tema dei cambiamenti climatici e con la costante del malcostume locale. La domanda che sorge spontanea è la seguente: cosa si sta facendo per prevenire nuovi disastrosi incendi? Visti gli attuali risultati, poco o niente.
Per saperne di più sul grande incendio del 2017: https://www.ilmediano.com/vesuvio-i-giorni-di-fuoco/
Il dissesto idrogeologico
A tutto ciò va aggiunto il conseguenziale dissesto idrogeologico, fenomeno anch’esso non nuovo in area parco, soprattutto sui ripidi versanti del Monte Somma (parte più antica della caldera entro la quale si erge il Gran Cono del Vesuvio) qui e soprattutto sul versante sud orientale del Vesuvio dove l’effetto distruttivo dell’incendio è stato maggiore, gli effetti si sono acuiti in numero e portata a partire già dall’autunno 2017. Sul Somma, nello specifico (anche se qui l’incendio ha colpito in maniera minore), la conformazione del territorio e la riduzione dell’effetto di contenimento attuata dagli alberi ormai distrutti ha facilitato il defluire a valle di grosse masse di terreno (materiale piroclastico incoerente e roccia lavica) e alberi. Il tutto è facilmente riscontrabile nella quasi totale cancellazione del “Sentiero delle Baracche” (conosciuto anche come Via traversa e parte bassa del sentiero n°3 del PNV) dove, sia le opere antiche di regimazione delle acque meteoriche (borboniche e post-unitarie) sia quelle più recenti di ingegneria naturalistica (2001-06), sono state danneggiate o, nel caso di queste ultime, completamente distrutte con la perdita di infrastrutture, anche storiche, e l’aumento del rischio per chi percorresse tale sentiero. Sul versante sud-est, abbiamo invece il continuo flusso di detriti a valle dove vecchi canaloni adibiti oggi a strade, talvolta interne al tessuto urbano come a Torre del Greco, portano a mare tutto ciò che la vegetazione distrutta non può più contenere, con alterazione del litorale e grave pericolo per la popolazione anche in caso di evento meteorologico non per forza di cose, eccezionale. La stabilità di molti degli alberi bruciati dall’incendio è inoltre motivo di pericolo sempre per chi transitasse in quelle zone colpite dal disastro del 2017, poiché perdono sempre più consistenza e stabilità rovinando spesso sulla linea elettrica o su auto e abitazioni. Solo alcuni comuni, spronati dall’associazionismo locale, hanno emesso ordinanze che imponevano ai privati di intervenire urgentemente nei loro fondi per scongiurare ogni pericolo per persone o cose.
Il turismo
Conseguenziale alla summenzionata e malintesa idea di sviluppo, l’ente parco ha operato con strategie univoche per una fruizione dell’area protetta limitata alla visita turistica del Gran Cono, rivelatesi poi controproducenti, esaltando le pregresse criticità di abusivismo e congestionamento automobilistico, ed entrando, tra l’altro, in forte contrasto con l’altra parte in causa del comune di Ercolano col sequestro da parte di quest’ultimo dei tornelli e dei nuovi manufatti, perché considerati abusivi. Non mancano inoltre i disservizi con un nuovo e farraginoso sistema di acquisto on-line dei biglietti, non rimborsabili in caso di ritardo e aumentando i loro prezzi in un momento di forte crisi economica e sociale. Si è intaccato in tal modo, e fortemente, l’immagine del Parco anche a livello internazionale dove, a rincarare la dose, troviamo la totale assenza di bagni presso uno dei luoghi turistici più visitati al mondo, incoerente fonte di vanto della presidenza del parco. La cattiva comunicazione relativa al nuovo sistema di biglietteria e l’impossibilità di fare il biglietto in loco, costringe intere comitive a tornare indietro senza biglietto di entrata per mancanza di segnale telematico, per esaurimento dei posti contingentati (spesso esauriti a causa del fenomeno del bagarinaggio) o per il semplice ritardo. A ciò si aggiunge l’acredine creatasi tra il parco e un mondo del turismo, guide, tour operator e indotto che, da un anno a questa parte, dopo la prima batosta del COVID e costatata l’impossibilità di gestire i pacchetti turistici per il contingentamento e soprattutto per un sistema di biglietteria a dir poco balordo, è sceso letteralmente in strada per protestare contro i provvedimenti della presidenza del parco, che hanno fatto escludere dai programmi delle grandi compagnie di navigazione gli itinerari vesuviani.
Conclusioni
A più di quattro anni dal disastro vesuviano, l’unico atto concreto e relativo al contrasto attivo degli incendi è una convenzione tra PNV e i Vigili del Fuoco che si rinnoverà negli anni successivi ma, vista l’esiguità delle forze in campo (costituite solo da due presidi per un totale di 4 moduli antincendio), risulterà poca cosa qualora si ripresentasse una calamità come quella del 2017 e che solo la buona sorte non ci ha ancora ripresentato; a questo va aggiunto il lancio del “Grande progetto Vesuvio” con l’ambizioso programma del ripristino della sentieristica, di una sua nuova interconnessione tra sentieri e il contenimento del dissesto idrogeologico; ma, al momento, dopo circa quattro anni, la montagna ha partorito solo un proverbiale topolino di meno di sette chilometri lineari ristrutturati sui 54 preesistenti e le centinaia di chilometri immaginati. Nello specifico è stato riaperto ad oggi il sentiero n°7, già esistente; il n°9 già esistente e il tratto che va dal cancello della SP fino alla casa di Amelia del n°4 anch’esso già esistente. Stanno portando a termine il n°11, già esistente, che non arriva a un chilometro e il n°6, la storica strada Matrone, rilevando i lavori della Città Metropolitana. Gli altri sentieri, n°1, n°2 e n°5 sono stati sempre fruibili mentre ribadiamo che il n°3, il resto del n°4, n°6, n°8 e n°10 sono impraticabili. A questo si aggiungano i soli trenta ettari destinati all’effettivo rimboschimento; una sponsorizzazione che ha messo a disposizione alberi che nessuno mai irrigherà e che stanno progressivamente morendo; nonché lo stato di dissesto e abbandono descritto sopra. Il risultato di tutto ciò, nonostante gli spot dell’ente e la stampa politicamente indirizzata, è quello di una natura lasciata a se stessa e a quei pochi uomini e associazioni disposte a contenere l’incuria degli enti e delle istituzioni assenti, e che spesso non ottengono neanche udienza da parte di una presidenza del parco, sensibile solo al proposte complementari a una visione idilliaca del parco Un parco troppo spesso in balia di coloro che, tra bracconieri, motociclisti e abusivi di vario genere vogliono invece il Parco Nazionale del Vesuvio come un proprio parco giochi o come una pista per gare automobilistiche autorizzate dagli stessi sindaci della comunità del PNV.
Nel Parco Nazionale del Vesuvio prevale troppo spesso un ambientalismo di facciata ed una tutela fittizia e opportunistica, un ambientalismo fidelizzato dalle istituzioni o insito nelle stesse che, non solo non vuol vedere le infrazioni culturalmente considerate minime, come ad esempio quelle acustiche e luminose dei locali in quota, ma ignora, come scritto sopra, le tante criticità ambientali, vecchie e nuove, e soprattutto tollera il continuo traffico turistico su gomma che attraversa la riserva integrale, sia dal versante ercolanese, sia dal versante boschese (almeno fino al 2017), incentivandolo in virtù di un flusso turistico da record ma che di fatto, arricchisce i pochi fortunati che spesso clientelarmente lo gestiscono senza lasciare granché al territorio. Un ente parco che si mostra troppo spesso severo patrigno verso chi deve gestire i propri fondi ma assai tollerante verso i concerti sul Gran Cono e i grossi 4×4 che inquinavano e distruggevano il sentiero sulla Matrone; una distanza sempre più ampia s’è creata tra un ente distante e una realtà territoriale ad esso talvolta volutamente sconosciuta.
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