L’uomo nero
«Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; allora disse: “Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!”. E aggiunse: “Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! Dio dilati Iafet ed egli dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!”.» (Libro della Genesi, 9:24-27)
Vorrei la pelle nera, diceva una canzone italiana degli anni sessanta, perché si riteneva che averla comportasse doti particolari, intrinseche nei geni dell’uomo di colore e non frutto di un’evoluzione socioculturale. Oggi viviamo ancora una sorta di eugenetica di ritorno quella che vorrebbe ancora l’uomo nero possessore di particolari doti animalesche e non un nostro compagno di percorso verso il progresso dell’umanità.
Ancora oggi, nella musica come nello sport, se non pure in altri contesti, si continua a considerare chi ha una pelle dal colore diverso dalla nostra, non come un uomo dai tratti somatici diversi ma un uomo diverso, un uomo diversamente umano. E questo con buona pace di Bartolomé de las Casas che nell’America coloniale spagnola elevò al rango di uomini i nativi, che non venivano ancora considerati tali, e condannò invece a quello di reietti dell’umanità gli schiavi africani, degni della maledizione di Noè perché discendenti di Cam, biblico progenitore degli africani, che lo vide ebbro e nudo.
Ancora oggi, dopo secoli di progresso scientifico stiamo ancora a pontificare sulle peculiarità di un uomo in base al colore della sua pelle, all’etnia di provenienza o dalla sua religione. Stentiamo ancora nel capire o nell’ammettere che siamo tutti uguali e questo a prescindere dai tratti somatici.
Dire che un nero sia dotato per lo sport è, a mio modestissimo parere, un atto di latente razzismo e, anche se non lo sembra, è così, poiché meno esplicito ma molto più radicato e insidioso. Sostenere che un africano sia più dotato nello sport equivale a dire che questi sia costituito più di forza bruta che di intelligenza, dote precipua di noi bianchi, né più, né meno di quanto si pensasse nell’ottocento. Questo vale anche quando si dice che le persone di colore abbiano “la musica nel sangue”, così come quando si dice di tutto sui migranti ma poi si afferma che si hanno tanti amici di colore; come se l’amicizia fosse una gentile concessione elargita da chi pensa d’essere, per etnia o ceto, tutto sommato, superiore o, ancor peggio, così come quando si nega il razzismo ma con la congiunzione avversativa finale.
Ammettere il pregiudizio, si sa, è brutto ed è politicamente scorretto ma è naturale fin quando non diventa patologico. Questo paradosso non è più tale se si passa dallo stereotipo e dal luogo comune alla considerazione che tutti gli esseri umani sono uguali, così nel bene come nel male, così nei pregi come nei loro difetti e, il relegare ad un’etnia o a dei tratti somatici delle caratteristiche superiori rispetto ad altre, è comunque razzismo puro poiché si appioppano a costoro doti che gli altri esseri umani non avrebbero o che avrebbero in misura minore, sì, proprio come le doti affibbiate ai calciatori di colore quando questi diventano oggetto dello scherno delle tifoserie avversarie; curnuti e mazziati oserei dire perché, se da un lato c’è chi gli fa “buuu” o gli lancia banane per accumunarlo ad una scimmia, dall’altro c’è invece chi ne esalta le doti sessuali riducendolo comunque ad un animale da monta e non a un uomo con i suoi sacrosanti diritti e non sindacabili dalla cintola in giù e tutto ciò fregandosene delle donne anch’esse relegate nel calderone dell’immaginario pornografico dell’italiano medio.
Avere la pelle scura non significa appartenere per forza di cose ad una sola etnia e questo a prescindere dalle varie sfumature che la genetica ci offre. Oggi, per fortuna, il concetto di razza è stato abbandonato grazie alle scoperte legate alla genetica per cui, la bellezza dell’essere umano e il suo risultato fisico, psichico e culturale è quel meraviglioso cocktail che arricchisce, e quasi sempre migliora, la nostra specie, quel meticciato somatico e culturale che altro non è che il patrimonio di tutta l’umanità in ognuno di noi.
Ecco perché, quando si attribuiscono doti particolari ad una sola etnia o a un solo fototipo andiamo oltre il dovuto e dimentichiamo che siamo al cospetto di uomini e persone come noi. Il notare ad esempio durante le competizioni sportive che molti atleti siano di colore, ciò non vuol dire che questi siano più dotati per il colore della loro pelle ma che abbiano semplicemente un colore della pelle diverso da quello comunemente diffuso nel nostro paese, lo si nota per forza di cose, poiché l’Italia non è ancora un paese multietnico o, perlomeno, non se n’è ancora accorta, ma la presenza di atleti di colore è solo un dato di fatto statistico e non funzionale allo sport o alla peculiare specialità.
Del resto avere la pelle scura non vuol dire avere le stesse doti fisiche, nella stessa Africa, esistono differenti tonalità di fototipi e diverse corporature, esistono africani longilinei e africani tarchiati, africani con un maggior numero di fibre muscolari a contrazione veloce così come altri a contrazione lenta e quindi più adatti allo sforzo prolungato, e non è ipotizzabile quindi che possano prevalere tutti nelle stesse attività sportive a prescindere, e neanche per forza primeggiare in queste. Lo sport quindi non è una caratteristica intrinseca dell’africano, dell’uomo o la donna di colore, ma molto spesso un’espressione culturale del paese dove questo vive, infatti sono molti di più gli afroamericani a prevalere nelle varie discipline olimpiche rispetto agli stessi africani, nei cui paesi lo sport non è ancora del tutto un modo per emergere socialmente ed economicamente come accade appunto negli Stati Uniti d’America o nella stessa Europa, altro luogo di rifugio di molti africani. Gli sport dove emergono i neri (e ammetto che il fatto di doverlo scrivere mi crea notevole disagio, visto che ho la radicata abitudine di considerare gli uomini persone e non elementi cromatici) sono in genere quelli appartengono allo specifico contesto sociale o a quelli più poveri, quelli per i quali non sono necessarie costose strutture sportive dove poter praticare ed eventualmente emergere in contesti sociali che talvolta lasciano ancora poche corsie a chi è immigrato di prima o seconda generazione.
Del resto sono pochi gli atleti di colore che ricordiamo esser stati campioni di tennis e ancor meno quelli che hanno primeggiato nelle piscine olimpioniche, mentre in moltissimi hanno trionfato in sport relativamente poveri come l’atletica, il calcio o il basket.
Lo stesso ragionamento vale per la musica, altro andante che vorrebbe che questa passione viscerale sia trasmessa attraverso i cromosomi e non attraverso una cultura immanente nel proprio contesto sociale. Prendiamo non a caso il blues, la musica per eccellenza dei neri d’America e con forti basi nell’Africa occidentale, ecco, il blues ha molto a che vedere con il contesto sociale degli ultimi tra gli ultimi quali erano gli schiavi afroamericani nell’ottocento, così come i gitani lo erano nella Spagna del seicento e dei secoli a venire, e così come lo erano i lazzari napoletani sotto le varie dominazioni straniere che si intervallarono nella lunga storia di quest’altra parte del nostro Stivale. Tutti hanno prodotto una musica e una canzone triste e allo stesso tempo ribelle che ha caratterizzato la cultura e l’identità di quel popolo, una musica e un canto che era liberazione interiore per gli schiavi di tutte le epoche e di tutte le latitudini e forse lo è ancora oggi in qualche modo e in qualche dove del nostro pianeta.
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