Morire di COVID-19 ad Agosto

Corsia d’ospedale vuota (foto fonte web)

Ammalarsi d’estate è sempre stato complicato, soprattutto al Sud; il mondo pare fermarsi ad agosto, e gli stessi servizi essenziali vanno a rilento, in virtù di un’usanza divenuta ormai statutaria ma che comporta disservizi e disagi per chi ha più bisogno. Purtroppo, anche in epoca di COVID, quest’abitudine persevera, enfatizzando incongruenze pregresse. Quella che segue è la testimonianza di una cittadina del Vesuviano con la sua storia dal triste ed emblematico epilogo, ma soprattutto con il suo invito alla Comunità Scientifica ad assumere un ruolo centrale nella gestione Covid.

Il Direttore

 

Alle 14,20 di oggi, 25 Agosto, sarà trascorsa una sola settimana dalla morte di mia madre, avvenuta per Covid – 19. Ho ritenuto indispensabile ripercorrere l’iter vissuto dalla nostra famiglia perché lo trovo un emblematico esempio di quanto stia tuttora accadendo nelle vite di ciascuno. Lungi da me qualsiasi vena polemica, ma alcune riflessioni mi sono sembrate d’obbligo.

Il report – il 29 Luglio mi è stata somministrata la prima dose del vaccino Pfizer; dopo altalenanti valutazioni e timori legati a questo salto nel buio, mi era sembrata una scelta razionale, per ridurre almeno i danni fisici della malattia, qualora l’avessi contratta. Non sono stata fortunata: grazie all’aiuto di alcuni medici, che mi hanno successivamente supportata e hanno insistito nel ricostruire la catena del contagio, è emerso che probabilmente proprio intorno a quella data ero già stata esposta al virus. All’inizio d’Agosto ecco sopraggiungere un raffreddore e una forma di faringite e tracheite, abituale per me d’estate, tanto da farmi perdere in genere la voce anche per una settimana; poi la febbre a 38,7, un’anomalia. Telefono alla sostituta del mio medico curante, che nel corso dei primi giorni di questa vicenda mi ha ripetuto più volte di essere in ferie, per una terapia: «Prenda del paracetamolo e vediamo come va, non sarà nulla di grave». Insisto per la prescrizione di un antibiotico, l’azitromicina, quello che da sempre ha risolto i miei malanni alle alte vie respiratorie e comincio ad assumerlo di mia iniziativa. Dopo quattro giorni, la febbre che si era mantenuta sempre costantemente intorno al 38, scende sotto la soglia del 37. È il 7 Agosto: il giorno dopo sarei dovuta partire per la mia unica settimana di vacanza programmata e, accompagnata da mia sorella appena rientrata dalla sua, decido di mia iniziativa di sottopormi in farmacia a un tampone antigenico rapido, risultato immediatamente positivo. Ed ecco l’inizio di un’epopea piena di paradossi. Non posso comunicarlo alla sostituta del mio dottore, perché nel fine settimana non è tenuta a rispondere ai messaggi, allora invio a lui un Whattsapp e ne ricavo il suggerimento di un test molecolare da fare privatamente, insieme agli altri membri della famiglia; insisto a lungo e finalmente il 9 Agosto siamo tutti inseriti in piattaforma affinché l’ASL proceda al monitoraggio della nostra situazione. Intanto mi curo con il fai da te, perché non ho mai ricevuto un protocollo terapeutico e sento al telefono diverse guardie mediche per supporto e consigli, poi, l’assurdo: la mattina dell’8 Agosto ricevo il Green Pass per aver fatto la prima dose di vaccino e scopro con grande meraviglia che i diversi sistemi informatici elaborati per la pandemia non dialogano tra di loro. Com’è possibile che un test antigenico positivo fatto il giorno precedente e inserito nel canale Tessera sanitaria non sia assolutamente influente e mi venga concesso come nulla fosse il Green Pass? Se fossi stata una pazza incosciente, una volta sfebbrata, avrei potuto girare ovunque senza che nessuno potesse fare alcuna obiezione e trasformarmi in una mina vagante. Per fortuna, non sono un’incosciente e poi la mia preoccupazione era mia madre: ottant’anni appena compiuti, obesa severa, non vaccinata per timore di possibili effetti avversi gravi e perché praticamente prigioniera della casa, dalla quale, per problemi di deambulazione, non usciva da oltre quattro anni. Siamo sempre state io e mia sorella ad occuparci di lei, per affetto e per ridurre l’esposizione agli estranei, supportate negli ultimi mesi, soltanto di mattina, da una signora, che abbiamo considerato la nostra governante. Mia madre, però, era una donna pudica e soltanto noi potevamo aiutarla in tutti gli aspetti della sua igiene personale. Temevo il contagio, per la stretta vicinanza avuta con lei, nonostante avessi portato la mascherina: l’ho ripetuto più volte al medico dell’ASL Napoli 3 sud di Ercolano, che ha impostato l’iter dei nostri tamponi e ha accettato di anticipare quello di mia madre al 13 Agosto, senza aspettare il 17, data fissata invece per mia sorella, quando sarebbero trascorsi i dieci canonici giorni dal mio primo tampone antigenico (il secondo, quello molecolare di pura conferma, risultato sempre positivo, lo avrei fatto il 10). La sera del 9 Agosto, però, mia madre ha già 38 di febbre e, assurdo a dirsi, «Non è detto che sia Covid, senza un tampone positivo» – lo hanno sostenuto i dottori. Cominciano cure non mirate: il solito paracetamolo e un antibiotico generico. La febbre persiste nei giorni successivi. Finalmente il 13 viene fatto il tampone molecolare a domicilio, il 14 arriva il risultato positivo, comunicato anche telefonicamente dal medico dell’ASL, che ci chiama in serata: grazie alla sua sollecitudine, viene attivata l’assistenza domiciliare dell’USCA. La mattina del 15 Agosto viene aperta la sua posizione e suggerita una terapia, ma nel frattempo era già in essere la catena degli amici che avevano vissuto la malattia da Coronavirus, guidata da un ex collega di mamma, in realtà per lei il figlio maschio che non aveva mai avuto, che riesce a fissarci un appuntamento telefonico alle 12,30 dello stesso giorno con un noto pneumologo, rivelatosi uno specialista nella terapia del Covid: lui suggerisce un’altra cura, da noi preferita. Finalmente, anche il nostro medico curante, dopo un mio lungo messaggio via Whattsapp che lo sollecitava, dato lo stato di soggetto fragile di mia madre, a rendersi disponibile, risponde alle mie chiamate. La sera precedente, intanto, avevamo chiesto l’intervento di un’ambulanza Covid del 118 perché nessuno veniva ancora a casa a vedere mamma: le dottoresse sono state professionali e quasi affettuose con lei, rilevando il persistere di una situazione di salute generale ancora abbastanza stabile e una saturazione accettabile. Nostra madre era sotto ossigeno, presente a se stessa, chiacchierona ma capricciosa per la temperatura sempre mediamente alta. Era necessario un infermiere per delle flebo integrative di liquidi. Trovarlo è stata un’ulteriore impresa, perché al sud non bisogna mai ammalarsi d’estate, soprattutto di Covid. Il 16 Agosto, anche la dottoressa dell’assistenza domiciliare dell’USCA, venuta a casa, valuta abbastanza stabile lo stato di salute di nostra madre, da monitorare costantemente, perché nonostante lei assuma già farmaci anticoagulanti, per un’embolia polmonare pregressa nel 2009, è comunque un soggetto a rischio. Purtroppo il giorno successivo, nel pomeriggio, comincia uno stato di apparente sonno di mamma, ancora relativamente vigile, con una saturazione discreta. Marcello, l’infermiere entrato nelle nostre vite, le fa la seconda flebo. Intanto, il medico dell’ASL mi comunica la mia avvenuta negativizzazione al Covid (avevo dimenticato di averlo ancora) e la positivizzazione di mia sorella, vaccinata con entrambe le dosi di Moderna. Io e lei ci alterniamo in fasce orarie stabilite nella sorveglianza di mamma per la quinta e ultima notte della sua vita. Il 18 Agosto, preoccupate da quello che sembrava uno stato di quasi catatonia, dopo aver sentito lo specialista che l’aveva in cura, aver chiamato i medici dell’USCA per un supporto e un’altra ambulanza Covid del 118, viene prospettata la possibilità che sia sopravvenuta un’emorragia cerebrale. Nel valutare come procedere, mamma si è lasciata andare alla morte dopo soli 50 minuti dall’intervento dei medici.

Ed eccomi al momento delle riflessioni indotte dalla nostra esperienza personale:

– Non è ammissibile che, data la proroga dello stato di pandemia al 31 dicembre 2021, il supporto del Sistema Sanitario Nazionale ai malati di Covid d’estate «sia in ferie» e che i tempi della diagnosi e della terapia siano vincolati all’esito di un tampone molecolare rigidamente fissato a 10 giorni dal primo contatto: io e mia madre potremmo essere state esposte alla stessa fonte e aver manifestato i sintomi in momenti diversi, ma ravvicinati e nessuno potrà mai darcene un’eventuale conferma.

– Chiunque, inclusi i vaccinati, deve continuare a indossare costantemente la mascherina. Tutti i medici conosciuti nel corso della nostra vicenda hanno espresso la loro preoccupazione per lo stato di «liberi tutti» in cui versa il nostro paese. In base alla loro esperienza sul campo, i vaccinati che contraggono il Covid con sintomi lievi, un mal di gola o un raffreddore, senza mascherina sono un costante pericolo. Dopo aver ricostruito la catena dei nostri contatti, è emerso che il virus ci è stato consegnato a domicilio, da un parente o un amico vaccinato (gli unici a frequentarci) che ha starnutito o tossito senza immaginarne le conseguenze, soprattutto perché nella nostra condotta quotidiana fuori casa, io e mia sorella abbiamo costantemente rispettato distanziamento e uso della mascherina e non davamo un bacio o un abbraccio a nostra madre dai tempi del primo lockdown.

– La Comunità Scientifica deve assumere un ruolo da protagonista costante nella gestione del Covid, deve alzare la voce per fare chiarezza, in termini di diffusione del contagio, di terapia e gestione dei malati da Coronavirus. Non è il momento dello scontro tra vaccinati e non vaccinati: la nostra esperienza è un esempio della trasmissione della malattia in maniera indistinta, seppure con sintomi diversi. È il tempo da protagonista della Comunità Scientifica: deve dettare le regole, con trasparenza e onestà. Ce lo meritiamo tutti, per alimentare la speranza in un’esistenza migliore.

Di Rachele Scognamiglio

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