Nel bosco degli avi, alla scoperta delle radici di Neapolis
A Napoli si sa “ovunque scavi trovi qualcosa di antico” ma il territorio napoletano custodisce tracce di antichità anche al di fuori del perimetro cittadino e spesso in luoghi dove non immagineresti mai di trovare testimonianze archeologiche, soprattutto in un bosco, una fitta selva di alberi al margine del tessuto urbanizzato. Raccontiamo oggi di una straordinaria visita nel parco urbano delle colline dei Camaldoli che custodisce i resti di una antica necropoli ipogea risalente ad oltre due millenni fa.
A guidarci in questa straordinaria scoperta è Carlo Leggieri anima dell’associazione culturale Celanapoli che da anni è impegnata nello scavo e valorizzazione della necropoli ellenistica di Napolis esistente nella zona della Sanità.
Nel bosco della contessa
In cima alla collina dei Camaldoli resiste ancora un ampio polmone verde della città di Napoli che oggi fa parte del parco metropolitano delle colline dei Camaldoli. Parte di questa area da qualche secolo è coltivata a bosco ceduo per produrre pali di castagno, in particolare il Bosco della contessa o dei Gesuiti ed è proprio questo castagneto che custodisce la straordinaria meta dell’escursione.
Appena abbandonato l’ultimo lembo di città ci si ritrova subito immersi in un fitto bosco di castagni. Il percorso da fare lambisce una norme cava di tufo che affettando la collina ne ha stravolto i percorsi storici, così come la coltivazione del bosco, per sua natura dinamica, ha obliterato antichi sentieri creandone di nuovi.
Percorrendo i sentieri tra un rigoglioso sottobosco con particolari specie di orchidee, e purtroppo anche resti antropici, sia antichi che moderni frutto di una dissennata fruizione del bosco, passiamo accanto ad una fronte di una antica cava di tufo dove chissà quando qualche tagliamonte vi incise un Calvario rappresentato da tre croci su tre monti stilizzati.
Qui il sentiero inizia scendere rapidamente verso una zona più umida e dove per questo abbondano felci e muschi. Percorsa l’ultima curva si arriva in un piccolo slargo lambito da un grazioso torrente ma purtroppo non privo di residui proveniente dalla sovrastanti abitazioni, ed è qui che sul fianco del costone tufaceo ci troviamo al cospetto della storia, delle radici di Neapolis, davanti ad una delle ultime dimore dei nostri avi.
La riscoperta
La necropoli rupestre scavata nel banco tufaceo risale probabilmente alla fine del IV e l’inizio del III sec. a.C. Questi mausolei funebri di tipo familiare erano collocati lungo dei canaloni naturali che venivano utilizzati come percorsi per raggiungere la città dalle località a nord di essa. Queste tombe, seppure frequentate praticamente da sempre, utilizzate in passato anche come ricovero di pastori o come rifugio di briganti, non sono mai state oggetto di uno studio sistematico. L’ultima documentazione del sito risale agli anni ’90 ad opera del Gruppo Archeologico Napoletano, come ci spiega l’archeologo Pasquale Liccardo, che insieme ad alcuni appassionati, e complice il lockdown, si è messo alla ricerca di queste antiche tombe ormai di nuovo sommerse e nascoste dalla rigogliosa vegetazione.
Il mausoleo rupestre
Quella che vediamo è una delle tre testimonianze oggi conosciute nell’area della memoria che gli antichi dedicavano ai defunti. Un’ultima dimora che è una architettura al negativo, ricavata per sottrazione dalla roccia e non per aggiunta di materiali, preceduta da un pronao di accesso anch’esso scavato, con colta ad botte ad arco ribassato, e lungo i cui muri sono presenti delle sedute sulle quali si riposavano i viandanti o sostavano i familiari in visita ai defunti.
Al centro della parete di fondo si apre il varco d’accesso sormontato da una finestrella a bocca di lupo e più su da un incavo nel quale c’era probabilmente una lapide dedicatoria con i riferimenti alla famiglia proprietaria del sacello.
All’interno della tomba
All’interno, a pianta quadrata di circa 3 m di lato ed altrettanti di altezza, sono ricavati al centro delle pareti tre nicchie ad arcosolio nei quali è abbozzato un cuscino anch’esso scavato nel tufo.
Qui venivano deposti i corpi dei defunti i cui resti successivamente venivano traslati in delle urne conservate nelle piccole nicchie ricavate ai lati degli stessi arcosoli.
La fattura della tomba è molto semplice, sembrerebbe addirittura solo abbozzata, molto lontana dalla raffinatezza dei monumenti presenti in città. Probabilmente ciò ci testimonia una minore disponibilità economica o una diversa classe sociale delle famiglie che realizzarono questa necropoli rupestre.
La visita si conclude con una seconda sorpresa culturale: l’interpretazione in un suggestivo scenario silvestre de “I sette palommielli” di Giambattista Basile ad opera di Daniela del Monaco e Guido Ferretti.
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