Odio l’estate

Foto e fotocomposizione di C.Teodonno

Come passare dalla talassoterapia alla psicoterapia e sopravvivere. Viaggio semiserio negli usi e costumi vacanzieri di ieri e di oggi.

No, non odio l’estate in sé, col suo calore infernale e un mondo che pare andare anacronisticamente in letargo; anzi, con l’arrivo di giugno, benché questo non determini l’inizio delle mie vacanze, entro lo stesso in un clima più lento e rilassato. Quello che invece letteralmente mi distrugge è la routine della villeggiatura e tutti quei contrasti che, se ben radicati nella nostra cultura, come ogni evento di massa e con buona pace della libera scelta, risulta necessario solo perché, in quanto tale, è la stragrande maggioranza degli italiani a sancirne l’ineluttabilità.

Ebbene sì, fin da piccolo, quando al mare seguivo, con costumino e salvagente d’ordinanza mia madre, mio padre e i miei tanti fratelli, mi chiedevo quale fosse lo scopo di quella trasferta asfissiante che mi obbligava a lasciare una San Sebastiano tutto sommata fresca ed andare ad imbottigliarci nel traffico vacanziero prima, e in una delle tante fatiscenti e afose case in affitto su uno dei litorali nostrani poi. All’epoca, di aria condizionata e ventilatori non se ne parlava proprio, erano gli anni settanta, ed ancora oggi, in molti casi, il servizio sauna è assicurato quasi come se fosse un optional, ma l’attrazione fatale del mare, del sole e della spiaggia per la mia famiglia e per milioni di italiani era ed è inarrestabile.

Oggi le cose sono apparentemente cambiate, i centri commerciali e la grande distribuzione, permettono di acquistare i generi di prima necessità a prezzi tutto sommato abbordabili ma all’epoca, oltre alla penuria di negozi, c’era l’abitudine di portare con sé praticamente tutto. Ecco perché le nostre auto, degne di una Peugeot di marocchini sulla strada di Algeciras o della 1.100 di Esposito Gennaro e i sette figli suoi, le cui gesta venivano cantate nella canzone di Tony Tammaro, erano dei veicoli sovraccarichi di gente e masserizie, cassette d’acqua minerale, bottiglie di passata di pomodoro, fasci d’aglio, nonni al seguito e pasta a volontà. Tutto il necessario per un esodo biblico senza lasciare scampo agli esercizi commerciali del luogo, se non al pane quotidiano e ad un centellinato gelato per i bambini. Altro che filiera corta! Altro che incentivo all’economia locale! Durante le nostre vacanze bisognava risparmiare il più possibile ed era una continua lotta tra il turista parsimonioso e l’esercente esoso.

Ma, tornando al mare, l’andante era quello che facesse bene, faceva bene lo iodio per la respirazione, faceva bene il sole per produzione della vitamina D e la sabbia per i reumatismi di chi già era più avanti negli anni. Va bene, ma non venivamo certo dalla Scandinavia, e di sole, almeno noi ragazzini di una certa generazione e di una certa latitudine, lo prendevamo già tra giugno e luglio nelle nostre interminabili partite di calcio o nei nostri epici giri in bici per le stradine di campagna. Allora cos’era che giustificava questo spostamento di massa dalle città al mare se non un irrefrenabile desiderio di gratificante omologazione?

Inutile dirvi che la salute, al mare, spesso ce la rovinavamo lo stesso, perché, l’unico sfizio nostro era quello di spugnarci nell’acqua e, malgrado le urla materne e le statutarie e immaginifiche due ore post prandium, spesso il raffreddore, l’otite, o ancor peggio colpi di freddo e di calore, non ci risparmiavano. Il sole poi, ce lo prendevamo tutto e nelle ore peggiori per la forte irradiazione e per l’assenza della benché minima protezione, perché il sole faceva bene, anche con le ustioni di secondo e terzo grado!

Ecco perché quel bambino prima e quel ragazzetto poi, non amava così tanto il mare, le scottature, la salsedine, la sabbia e il caldo infernale della spiaggia, così come le vie crucis dalla casa alla spiaggia, in pratica un triplo bagno! Uno al mare e due di sudore. Sì perché poi, una cosa che stento ancora oggi a comprendere, è quella del perché, quando fa più caldo, ci si ostini ancora oggi ad andare in luoghi più caldi ed affollati e non cercare il refrigerio là dove ce n’è. E invece no, mare e caldo a tutta forza, perché tutti così facevano ed era ed è da poveracci non farlo. Del resto ad agosto le città si spopolavano e per quei pochi che vi rimanevano era un incubo dove bisognava lottare contro ladri d’appartamento e disservizi, con tutto chiuso e con situazioni angoscianti e inverosimili se ci si trovava in una qualsiasi emergenza. Quindi ai più, l’opzione migliore risultava essere ancora una volta quella delle spiagge assolate e affollate ma quanto meno socialmente più interessanti e in teoria, con servizi più accessibili; in teoria! Perché è ovvio che, anche quando i servizi c’erano, erano sempre tarati, così come il sistema fognario e di depurazione, ammesso che ce ne fosse uno, ai numeri della popolazione locale e non all’aumento dovuto all’incontrollato flusso vacanziero.

Anche l’adulto di oggi soffre questa di idiosincrasia balneare, proprio come quel bambino di ieri, anche quando, pur padrone delle sue scelte e fruitore di più esotiche mete, deve accondiscendere alle necessità familiari e soffrire, anche se in una pur sempre libera, bella e gratuita spiaggia spagnola, i morsi della sete e del calore e continuare a chiedersi il perché di questo inspiegabile e sadomasochistico supplizio. Oggi però, così come allora, sogno, anelo, auspico, al limite dell’animismo, la pioggia, quella che potrà permettermi di gioire, tra lo sconforto generale, della frescura e della libertà dalla psicosi di massa.

SULL’EPOPEA VACANZIERA

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