Quando il metallo sostituisce la carne e quando un oggetto annulla l’essenza di una persona. Ma soprattutto quando le miserie umane diventano strumentali a quelle altrui.
In genere, in questo paese, quando si discute di una questione che suscita interesse, non lo si fa per affrontare il fatto in sé ma lo si fa più semplicemente per portare avanti le proprie posizioni, spesso di natura politica e anche quando queste hanno poco a che fare con la problematica della quale si discute. La tematica viene scissa tra le fazioni del contendere ed ognuna la affronta secondo la sua ottica e questo al netto dei “terzisti”, dei mast’e festa che, pur di non mostrare il nulla che hanno fuori, si prodigano nel mostrare il nulla che hanno dentro.
Le questioni poi, se riguardano fatti di cronaca nera, dividono ancor di più l’opinione pubblica tra garantisti e giustizialisti ed ovviamente, anche in questo caso, con la variante dei suddetti qualunquisti che navigano tra presunto buon senso e luoghi comuni, creando più confusione che analisi e perdendo ancora una volta un’occasione per tacere.
Gli ultimi fatti di cronaca rimettono in luce queste diatribe ancestrali e che dividono come allo stadio (mai esempio fu più calzante) anche su questioni serie come quella di un omicidio. Sabato scorso, disgraziatamente, un carabiniere in borghese ha ucciso un rapinatore che aveva provato a rapinarlo, fin qui parrebbe, in un paese normale, un cruento fatto di cronaca e, per quanto cosa drammatica, nulla di più; da noi invece, il corpo ancora caldo di quel giovane rapinatore se lo contendono le fazioni rivali del presenzialismo e questo per dar man forte alla loro visione delle cose e al loro egocentrismo mediatico.
Mettendo meglio a fuoco la situazione vediamo che il carabiniere in borghese, di poco più giovane del rapinatore (23 anni il militare e 15 il rapinatore), reagisce al tentativo di rapina mentre era in auto con una ragazza, facendo fuoco con la sua pistola d’ordinanza e colpendo con tre colpi, di cui uno alla nuca, il ragazzo che, assieme ad un complice, lo minacciava con una replica di pistola, stavolta puntata alla sua di nuca. Questo è quanto, secondo gli organi di stampa.
L’oggetto del contendere pare sia stato un Rolex, pare per pagarsi una serata in discoteca, ma perché specificarne la marca? Sarebbe cambiato qualcosa se fosse stato uno Swatch? Pare invece che già con le prime informazioni sull’avvenuto si specificasse morbosamente la marca dell’orologio, quasi a suggerirne lo status e tutti gli eventuali retropensieri possibili attorno a quell’oggetto. Ora infatti ci sono gli elementi utili per far sì che tutto l’armamentario ideologico dei contendenti appicchi il fuoco della tenzone e dia al tutto un valore aggiunto tale da sviare l’attenzione altrove e perderne il filo. Sopra ogni cosa quel Rolex, l’emblema del lusso, catalizzatore dell’odio classista e col quale i sinistrorsi aggiungono un altro mattoncino di astio contro il carabiniere che, in quanto tale, già non stava messo molto bene rispetto alla vulgata dei figli di papà di sinistra e sedicenti tali, che dimenticano che quel monile era probabilmente uno status symbol anche per il giovane rapinatore, tutt’altro che figlio del proletariato in cerca di redenzione sociale ma probabile vittima di un sistema che annichilisce tutti nella mercificazione di corpi ed anime. Inutile dire che al polso, quel carabiniere, poteva avere tanto un Rolex autentico come una patacca qualsiasi, ma niente e nessuno avrebbe avuto il diritto di ledere la sua di libertà di portarlo e niente e nessuno avrebbe avuto il diritto di mettere a repentaglio la sua di vita e costringerlo, per difenderla, a stroncarne un’altra. Né a lui, né a nessun altro ed invece il giovane carabiniere, oltre al fardello di aver ucciso una persona, dovrà affrontare anche gli strali di chi va oltre il dovuto della decenza e lo condanna senza processo.
La tragedia umana ricondotta a scontro di classe, ma quale lotta di classe poi? Quella degli alternativi dei centri sociali? Quella degli antagonisti anarchici con le regole altrui? Quelli dei benpensanti a parole ma che nei fatti non si sporcano mai le mani? Forse, ma sta di fatto che con la loro retorica, non tanto diversa da quella della destra che esalta a priori l’uomo in divisa, quelli con gli stessi dogmi speculari e trasversali e la stessa violenza nell’esprimerli, e che non riporterà in vita quel ragazzo dei Quartieri Spagnoli ma, soprattutto non eleverà la sua famiglia da quel substrato camorristico nel quale avevano vissuto fino ad allora anzi, rafforzerà la loro convinzione di essere nel giusto perché si farà di quel ragazzo un eroe, un antieroe, ma pur sempre un esempio, negativo per altri ragazzini sprovvisti di senso critico, cultura e buon esempio familiare e che lo seguiranno con le armi in tasca, vere o repliche che siano. Chi saranno i colpevoli allora delle devastazioni del pronto soccorso del Pellegrini Vecchio e degli spari contro la caserma dei carabinieri a Sant’Anna dei Lombardi, chi? La società? O chi alimenta quel credo populista fine a se stesso?
Ricordo la storia di Davide Sannino, un ragazzo che come tanti usciva la sera con gli amici, Davide ebbe la sfortuna di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato e morire ucciso per essersi opposto al furto di un motorino. Ecco, colui che l’uccise, anche lui era considerato un bravo ragazzo, “figlio di famiglia perbene”. Anche decenni dopo quel tragico evento, ho sentito ancora gente del posto sostenere che colui che uccise Davide Sannino fosse un bravo ragazzo, uno che girava con una 7/65 in tasca e che rapinava motorini, così come Ugo, il ragazzo ucciso dal carabiniere, che trascorreva i fine settimana a fare rapine, ma per qualcuno la colpa non era sua, perché Ugo aveva 15 anni, la colpa è del carabiniere in quanto tale, con i suoi 23 di anni. Quelli come Davide rimarranno sempre vittime due volte: del tessuto sociale che ha prodotto il suo assassino e perché continuerà ad esistere una cultura dell’appartenenza e della convenienza che si autoassolverà e che spesso l’assolveranno, per i crimini e le aberrazioni che avrà lei stessa partorito.
Coloro che alimentano questa cultura della giustificazione e colpevolizzano il carabiniere sono gli stessi che parlavano della mafia dei galantuomini, sono gli stessi che decenni fa giustificavano il contrabbandiere dietro l’angolo della strada, perché “in un modo doveva pur sempre campare”; salvo dimenticare che questa dottrina populista nascondeva i traffici della camorra, compreso quello della droga; e sono gli stessi che criticavano i ragazzini che compravano i cd falsi, perché con quei soldi “pagavano i proiettili dei camorristi” ma, al contempo, fumavano hashish e marijuana che compravano illegalmente dagli stessi, criticando un sistema del quale, a loro volta, facevano parte.
In una città come Napoli, dove le forze dell’ordine hanno dovuto confrontarsi da sempre con una parte della società, refrattaria ad ogni tipo di regimentazione e restia a prescindere ad ogni tipo di legalità, non c’era bisogno di altra benzina sul fuoco. In una città come Napoli non puoi sostenere che, se un quindicenne decide di delinquere, la colpa sia della società, a meno che non si creda nella predeterminazione sociale e genetica delle persone e perché di quella società, eventualmente, ne facciamo parte tutti e non solo il carabiniere che ha sparato, come tra l’altro pare per legittima difesa e che, se fosse stato lui la vittima, ora staremmo a parlare di tutt’altra cosa. Ma si sa, così come quando si parla della camorra, anche quando si parla di stato e società, si parla di tutti e nessuno, di tutto e niente, ma lascia quel tanto di spazio per sentirsi immune da ogni colpa e al contempo non attaccare mai nessuno direttamente e senza rischio alcuno, quel che importa è stare sull’onda e cavalcarla finché questa dura.
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