Vesuvio 76 anni di oblio
In effetti parlare oggi di Vesuvio, in piena pandemia da corona virus, può sembrare quasi futile ma il nostro Vulcano è sempre là, quiescente ma vivo e incombente.
“Riflesso nel seno De’ceruli piani Ardeva il baleno Di cento vulcani …” Giacomo Zanella
Il 18 marzo 1944 eruttava per l’ultima volta il Vesuvio, chiudendo in tal modo una fase che durava in maniera più o meno continua dalla disastrosa eruzione del 1906; con fasi parossistiche di rilievo solo nel 1929 e nel 1933. Quella del ’44 non fu una grande eruzione ma, chiudendo in sordina, provocò comunque morte e distruzione nel suo raggio d’azione. Settantasei anni dopo, una zona rossa più volte ampliata per il rischio vulcanico e un Parco Nazionale, non sono comunque bastati a sanare il rapporto tra i vesuviani e il Vesuvio; il vulcano continua ad esser visto, o meglio, non visto da chi lo vive, e continua ad essere solo un marchio di fabbrica od oggetto di scongiuri.
La fase parossistica, che durò ufficialmente dal 18 marzo fino al 29 marzo del 1944, distrusse buona parte dei paesi di San Sebastiano al Vesuvio e Massa di Somma di cui due terzi degli abitati furono rasi al suolo o inglobati dalla lava, lambendo solo il territorio di Cercola da un versante, ed Ercolano dall’altro, là dove le lave raggiunsero la Ferrovia Vesuviana (da non confondere con quella Circumvesuviana) e la sua centrale elettrica della Cook, danneggiandola gravemente, così come anche la Funicolare che fu completamente distrutta e mai più ricostruita.
Per capire bene il contesto che l’eruzione lasciò è utile menzionare la Relazione Ufficiale della Commissione Alleata di Controllo:
“una grave situazione fu creata dall’enorme volume di cenere e polveri vulcaniche che si depositò su vaste estensioni delle contrade. L’intera regione, all’est del vulcano, fu seppellita sotto uno spesso strato di piccole particelle di lava e ceneri di diverse profondità, mentre la polvere fu trasportata fino a Sorrento e Salerno dando un aspetto spettrale a tutta la zona. I danni più grandi furono prodotti nei comuni di Terzigno, San Giuseppe e Poggiomarino le cui distruzioni sia di case sia di persone furono particolarmente gravi. Giardini e campi coltivati, specialmente vigneti e frutteti furono distrutti … Abitazioni e strade furono rese inutilizzabili … Lo strato di lapillo variava dai 30 ai 120 cm … Una ventina di persone [un totale di 26 da un confronto della stampa dell’epoca ndr.] morirono sotto i tetti crollati per il peso delle ceneri”.
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In questi 76 anni abbiamo visto crescere l’urbanizzazione vesuviana in maniera esponenziale creando un anello senza soluzione di continuità attorno a Vulcano e al Parco Nazionale che avrebbe dovuto proteggerlo, 76 anni di piani di emergenza ed evacuazione fittizi, spesso modulati più dalla politica che dalla geologia del territorio e dalla sua storia eruttiva, con infrastrutture sempre in ritardo rispetto allo sfrenato sviluppo urbanistico che per decenni ha stretto in una morsa di cemento il complesso vulcanico nella fatalistica speranza che, quando sarà, noi non ci saremo.
Conoscerne la storia, anche quella eruttiva implica quindi una coscienza e la coscienza porta alla pianificazione; noi viviamo invece in un territorio dove si possono ancora ascoltare sindaci sostenere che da loro si potrebbe costruire ancora, perché lì la lava non c’è mai arrivata o perché c’è il Somma che li protegge, dimenticando, non sappiamo quanto coscientemente, terremoti, flussi piroclastici, nubi ardenti, colate di fango, mofete e anche le solo apparentemente innocue ceneri. Ovviamente non ci facciamo neanche mancare un ambientalismo di facciata, quello che porta avanti le eccellenze ma dimentica le criticità del Vesuviano, in un colpo solo cancellate in virtù di un politicamente corretto che non capiamo ancora dove riuscirà a portarci.
Viviamo in un territorio dove si decide di chiamare Ospedale del Mare un nosocomio a soli 8 km dal Cratere (considerate che Pompei, che nel primo piano di emergenza era già zona rossa, ne dista 12 di chilometri). Poi Ponticelli, assieme agli altri due quartieri orientali di Napoli è diventato finalmente zona rossa ma l’ospedale era ormai bello che avviato; che facevano, lo spostavano? Non di certo. Ad ogni modo, pure essendo vicino al mare, l’elemento di spicco del suo panorama, ma anche quello più ingombrante doveva essere cancellato, almeno nel nome, ed ecco svelato l’arcano, il Vesuvio non c’è più! Inutile pensare poi al fatto che davanti ad una indubbia comodità per chi vi risiede vicino, questa struttura andrà senz’altro contro l’auspicabile decongestionamento della Zona Rossa, perché, oltre alle degenze ci saranno parenti, medici, infermieri, amministrativi e tutto l’indotto che un ospedale comporta e che si muoverà per lavoro o per necessità verso la grande struttura o deciderà di andare a vivere da quelle parti, per ovvie questioni di praticità.
Anche più lontano, nel Nolano, abbiamo un altro esempio di mistificazione ed ipocrisia, abbiamo un Vulcano Buono, contrapposto al presunto Vulcano cattivo che gli sta di fronte. La natura non è mai cattiva, perché segue le sue regole perenni, immutabili come l’universo, ed è l’uomo che invece vuole sovvertirle e prendersene gioco, costruendo un simulacro del Vesuvio su di una piattaforma di rifiuti in pieno triangolo della morte ed anche in questo caso il gioco di parole viene incontro a chi non vuol mostrare ciò che è evidente.
76 anni per un vulcano non sono nulla ma a noi ne sono bastati pochi per dimenticare la sua essenza ignea, ed offenderlo in tutti i modi possibili ed immaginabili, soffocandolo col cemento, inquinandolo con i nostri rifiuti ma anche lasciando che prendesse fuoco l’88% della sua superficie boschiva con gravissimo danno per il suo già fragile ecosistema. E solo quando ci accorgiamo della sua presenza, magari per qualche suo moto interiore, solo allora lo temiamo con riverenza o con spregiudicata perseveranza.
Vorremmo chiudere le nostre riflessioni in occasione di questo genetliaco con le parole di Giuseppe Imbò, Direttore dell’Osservatorio Vesuviano all’epoca dell’ultima eruzione, che nel 1949 ci lasciava questa testimonianza viva e lungimirante delle nostre sorti di vesuviani.
«Malgrado il finto pennacchio di questi giorni il Vesuvio dorme ancora. È un sonno un po’ lungo perché data dal 7 aprile del 1944, però come capita ad alcune persone di parlare durante il sonno, anche il Vesuvio parla a modo suo s’intende. E come il subcosciente dell’essere umano si rivela a volte proprio nel sonno, così pure le forze nascoste e millenarie del Vulcano provocano anche durante la cosiddetta “fase di riposo” (e credo che sia questo il termine scientifico che attualmente compete al Vesuvio) fenomeni che, sia pure per qualche ora, ci ricordano il passato e ci danno il presagio di un futuro più o meno immediato.»
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